Incompiuta. E' questo il primo aggettivo che balena nella mente di chi osserva l'istantanea scattata all'Inter dopo le prime dieci partite del 2020-21. Il senso di indefinitezza che traspare dopo un mese e mezzo scarso di stagione ufficiale è certamente condizionato dai risultati deficitari registrati della squadra, imprigionata in un sistema di gioco che ha poco a che fare con la sua identità tattica che era stata definita con pazienza dal demiurgo Antonio Conte nel precedente periodo di lavoro.
Nella linea del tempo della Beneamata, in pratica, si era arrivati all'anno uno dopo un decennio di 'anni zero' e tabula rasa ogni tot mesi, compresa l'ultima del silurato Luciano Spalletti, l'uomo che rimarrà nella storia per aver accompagnato i nerazzurri nel futuro restituendo loro un briciolo dell'ambizione del passato grazie alle due qualificazioni consecutive in Champions League. Fondamenta solide su cui il suo successore ha progettato il famoso grattacielo 'altezza Juve', che ad agosto è arrivato praticamente uno-due piani sotto la residenza Agnelli. Ben lontano dalle big europee a cui, non si sa perché, l'architetto Antonio ha deciso di voler somigliare senza poter contare sul loro capitale umano. Il deficit di esperienza che lamentava l'anno scorso dopo Dortmund, tirando in mezzo i giocatori di provincia come Barella e Sensi, non può essere stato colmato dai soli Vidal, Kolarov e Perisic. Il gioco che squadre come Manchester City, Liverpool e Bayern Monaco hanno sviluppato non dall'oggi al domani è irraggiungibile in condizioni normali, figuriamoci nel periodo condizionato fortemente dal Covid-19.
E' questa la contraddizione più grande che sta condizionando fortemente il percorso dell'Inter, già spalle al muro nel gironcino europeo e lepre in un campionato che non ha padrone ma che impedisce di fare filotti vincenti troppo lunghi per le note variabili extra-calcistiche. Il tempo è già scaduto, il fatto di aver tentato un approccio diverso con 18 i giorni di respiro a cavallo delle due stagioni più anomale del calcio si sta rivelando un azzardo che, a conti fatti, obbligherà Lukaku e compagni ad andare in all-in nella gara di San Siro con il Real Madrid. Un crocevia che indirizzerà i giudizi della critica e condizionerà gli umori della piazza ma anche della società che, per bocca di Beppe Marotta, per ora predica calma. La stessa che si esaurirà piano piano se dovessero venire a mancare i preziosi proventi Uefa per l'accesso agli ottavi di finale di Champions, obiettivo minimo per una rosa costruita per raccogliere subito e non nel medio-lungo periodo. "Possiamo prendere come esempio il Liverpool di Klopp che è stato quattro anni senza vincere, ora è una macchina da guerra. Hanno costruito qualcosa di importante", aveva detto Conte prima della trasferta del Ferraris, campo dell'unica vittoria in mezzo a un'agenda fitta di otto impegni. Con questi numeri è improprio rapportarsi a club attualmente irraggiungibili, come è inutile scomodarli quando prendono rare imbarcate per giustificare la propria 'svolta offensiva'.
In queste settimane, quando è stato chiamato ad analizzare le prestazioni della sua nuova Inter, Conte si è messo l'elmetto e ha imbracciato lo scudo per respingere gli assalti dei risultatisti che hanno continuato a valutare la bontà del suo lavoro col vecchio metro, quello che lo stesso tecnico ha offerto loro in tanti anni di carriera in panchina. E' stato lui a proclamarsi 'vincitore seriale' dopo il trionfo in FA Cup col Chelsea, sempre lui a definire la sconfitta "come una morte apparente" nel 2015. Conte, per natura, non potrà mai essere Jurgen Klopp, propugnatore di un calcio-intrattenimento che si è impegnato a educare i suoi tifosi allo spettacolo come mezzo per arrivare al successo. Né Pep Guardiola, un uomo che punta a creare una legacy più che all'effimera conquista di un titolo. Due giganti che comunque Conte ha superato in Premier League, da underdog, nella stagione più contiana della sua carriera. Senza imitarli, ma adattandosi al nuovo contesto con correzioni tattiche in corsa dettate da risultati preoccupanti: l'idea del 3-4-3, diventato il marchio di fabbrica dei campioni d'Inghilterra 2016-2017, nasce non a caso nei 10' finali della sconfitta più brutta rimediata oltremanica contro l'Arsenal. Cancellata da un guizzo geniale che lo ha catapultato nell'élite degli allenatori più forti del mondo.
Conte è questo, cambia di fronte a pareggi o sconfitte. Oggi, anche dopo aver mancato l'appuntamento con la vittoria 7 volte su 10, rimane fedele a un copione scritto a tre mani con le contingenze e il mercato. Come ha evidenziato a Inter Tv dopo l'1-1 di Bergamo, l'ennesimo scontro diretto insoddisfacente della sua storia nerazzurra: "C’è un aspetto che in tanti non considerano, il fatto che siano arrivati alcuni giocatori nuovi, altri tornati da esperienze in altre squadre. Bisogna lavorare adattando le diverse caratteristiche dei giocatori alla nostra filosofia, specialmente centrocampisti ed esterni. A parte Gagliardini, abbiamo tutti centrocampisti offensivi, sulle fasce abbiamo ali come Hakimi e Perisic. Occorre trovare il giusto equilibrio".
Nel frattempo, Conte ha messo al mondo una creatura ibrida che non fa risultati né diverte i tifosi. In controllo ma quasi mai dominante; trafitta spesso e volentieri dagli avversari senza essere messa sotto. Monocorde e montematica, ancora inadatta a reagire agli eventi imprevedibili che propone una partita. "Noi prepariamo le partite, poi tocca a chi va in campo gestire le situazioni nuove (...) A volte non capiamo che bisogna fare di necessità virtù e leggere un altro spartito", ha fatto notare il tecnico. Uno che da sempre 'semplifica' la realtà del Gioco attraverso degli schemi ed è allergico a chi esce dagli stessi. Tutto pragmaticamente studiato in funzione della vittoria, senza ghirigori inutili. "Lo scorso anno forse eravamo meno belli sul piano del gioco, ma eravamo più brillanti nella gestione del risultato", ha sentenziato dopo il pari con l'Atalanta. Tutto bene per un concorso di bellezza, ma non per questo sport. Il primo a saperlo è lo stesso Conte, che deve tornare a giudicare se stesso con l'unica unità di misura plausibile: la vittoria.
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Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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