Il calcio è giusto? Non sempre. Razionale? Nemmeno. Spiegabile in maniera oggettiva? Figuriamoci. "Il calcio non è solo un gioco. E' un paradigma della vita" ha scritto colui che non si limita a raccontarlo, il calcio, ma ne è maestro per qualità professionali e umane: Riccardo Cucchi. Illogico, insensato e per questo passionale e romantico ma anche detestabile e inspiegabile. Ammettiamolo: ne scriviamo, ne parliamo, lo commentiamo e lo giudichiamo ma alla fine, poi, vale tutto e anche il suo contrario perché tutto può essere stravolto nel giri di pochi minuti da una giocata, un episodio, un'invenzione o un errore. Miseria e nobiltà del gioco, che tanto gioco non è, più amato dagli italiani, dotato di un confine a volte sottilissimo a separare vittoria e sconfitta. Ma... c'è un ma, altrimenti non saremmo qui. "Faber est suae quisque fortunae" dicevano i latini: ognuno è fabbro della propria sorte, ne è artefice, creatore, architetto.
E ora l'Inter, intesa come società, squadra, tifo, deve fare esattamente questo: plasmare la propria sorte. Ottenuto il via libera ad accedere al gran gala della nobiltà europea, ci sono una serie di condizioni favorevoli da sfruttare, insidie da aggirare, tranelli in cui evitare di cadere e obblighi da non rifuggire. Il posto in Champions è stato guadagnato con qualità che alla squadra nerazzurra non appartenevano da tempo: cuore, grinta, orgoglio, determinazione, ferocia, fame. Quelle cose, insomma, che ti portano a stravolgere un risultato in meno di dieci minuti e a indirizzare dalla tua parte una partita dominata per lunghi tratti dall'avversario. Tutte cose, intendiamoci, che sanno fare le grandi squadre. E che all'Inter erano mancate sia nelle passate stagioni sia, di frequente anche se non sempre, nel corso di quella appena conclusa. Una partita che valeva una stagione intera e che stava scivolando via tra le dita con la consapevolezza che solo la disperazione e un paio di episodi che ti strizzano l'occhio l'avrebbero potuta far girare. Paradigmi della vita, in effetti. Bellezze, stranezze e misteri del calcio che porta dall'estasi al pianto, dalla rassegnazione al tripudio con la velocità con cui si può battere un calcio di rigore. O rimediare un'espulsione. Che sono poi, tutti questi insiemi di fattori, la forza delle grandi, grandissime, squadre di chiamare a sé la buona sorte, di decidere che la ruota deve girare nel senso opposto e così succede.
Bene, ora che tutto ciò è accaduto l'Inter nel suo complesso, come società, squadra e tifo, dispone di un patrimonio che va saggiamente amministrato. Ha ritrovato credibilità, la capacità di raggiungere anziché fallire un obiettivo, di terminare una stagione festeggiando, di strappare con le unghie e con i denti quella che a tutti gli effetti suonava come una finale. Ha ritrovato le sfide più prestigiose da giocare il prossimo anno, ha riassaporato quanto sia bello vincere e festeggiare. Ha scoperto quanto lontano ti possano condurre tutte quelle qualità troppo a lungo smarrite e o emerse solo in parte: cuore, grinta, orgoglio, determinazione, ferocia, fame. Nessuno lo dimentichi, soprattutto quando l'avversario è più forte, più in forma, più in giornata. Ora bisogna impostare delle strategie efficaci ma sapienti: e parlare subito di "scudetto possibile" come fatto poche ore fa dall'ex patron, ad esempio, non vi rientra. Patti chiari, all'interno e con l'esterno come ha ribadito Spalletti nella sua ultima conferenza. C'è una buona base su cui impostare il lavoro, c'è un morale finalmente non depresso ma che va tenuto sui giusti livelli (né troppo alti né troppo bassi).
E ci sono le prime mosse. Va cavalcata tutta l'energia positiva portato da Lautaro Martinez, uno che arriva sì con aspettative altissime ma che, a differenza di quanto accaduto con Gabigol e Kondogbia, non sbarca in un pianeta dove l'allenatore se ne va due settimane prima dell'inizio del campionato o dove regnano caos linguistico, tattico e di idee. L'attaccante argentino sbarca su un pianeta dove il progetto si appoggia alla granitica solidità del lavoro fatto nell'ultimo anno da Luciano Spalletti, uno che dal punto di vista motivazionale ha capito cosa l'Inter rappresenta e che dal punto di vista puramente tecnico ha alle spalle una stagione di esperimenti, tentativi, successi, fallimenti; quindi di conoscenza. Va cavalcata la nuovissima mentalità di Brozovic che oltre ad aver trovato il suo posto nel mondo, in mediana, si è riscoperto leader carismatico e trascinatore. Va cavalcata la voglia di Skriniar, inserito in tutte le migliori classifiche per rendimento stagionale, di rimanere a godersi i frutti del lavoro così come va cavalcata l'ambizione di un capitano che è riuscito a condurre la nave là dove fino ad ora non era mai riuscito. E non va disperso l'amore, il calore, il trasporto e la forza di una tifoseria che ha mostrato con numeri e presenze cosa significhi tifare una squadra pur con le sue mille contraddizioni e stranezze. Non va messa a dura prova la fiducia del tecnico che ha saputo raggiungere l'obiettivo anche di fronte a certe "promesse non mantenute sul mercato": semplicemente vanno fatti dei patti basati su possibilità e necessità ma anche sul dovere dell'essere Inter, del tornare a essere Inter. Vanno trasferite sulle scelte e sul campo i proclami di grandezza fermo restando che grandi lo si diventa piano piano, passo dopo passo ma senza nascondersi. Perché il calcio con tutta la sua irrazionalità e passionalità, col suo farsi paradigma della vita può regalare sorprese e sovvertire pronostici. A patto di farsi artefici del proprio destino, fabbri della propria buona sorte nel bene e nel male. Con idee, entusiasmo, chiarezza. E la consapevolezza di aver tra le mani un patrimonio calcistico (fatto di fede, orgoglio, passione, visibilità e ritrovata credibilità) che sarebbe un delitto non sfruttare e valorizzare.
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