Un premio eccessivo? Forse sì, forse no. Il Barcellona ha fatto una signora partita, sarebbe da stolti affermare il contrario; e avrebbe potuto fare male tantissime volte prima, molto prima del gol del vantaggio firmato da quel Malcom che per la prima volta entra negli onori delle cronache in questa stagione per un gol realizzato piuttosto che per le telenovele di mercato. In questo, all’Inter va riconosciuto il merito di avere saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo: a tratti schiacciata senza appello dalla qualità e dal palleggio del Barça, salvata più volte da Samir Handanovic e tenuta su da un Milan Skriniar monumentale, da 100 milioni più mancia stando alle parole del suo tecnico, capace di far venire l’esaurimento nervoso a un Luis Suarez che fuori dal Camp Nou continua a non vedere la porta nonostante tante giocate di livello superiore, l’Inter comunque resiste gagliardamente anche quando la spia del fiato lampeggia ormai da qualche minuto.
Premio eccessivo, questo pareggio, per l’Inter? Forse sì, forse no. Anzi, forse no: il Barcellona meritava di vincere per quanto fatto ben prima del gol, ma il gol è arrivato quando forse i catalani avevano deciso di togliere il piede dall’acceleratore. Ma è bastata un’altra ingenuità, un’altra delle tante viste ieri sera, in fase di possesso palla, ed ecco che alla fine si è rischiato che a fare la differenza sia stata più la fame dell’ex Bordeaux, tra l’altro oggetto del desiderio estivo dei nerazzurri prima che della Roma. Ma se c’è un’altra cosa che l’Inter ha insegnato a tutti fino a questo momento della stagione, è stata la capacità di trovare la scintilla quando tutti sono ormai pronti a ritirare gli striscioni, chiudere gli zaini e tornare a casa.
San Siro, però, se lo ricorda bene quello che ha saputo fare l’Inter sin qui. E allora, ecco che quei timidi applausi scaturiti da qualche parte sugli spalti gremiti come non mai dopo la rete dello 0-1, si sono spenti subito per dedicare gli ultimi respiri, rantoli di voce, sussulti delle corde vocali a spingere i nerazzurri verso un’altra impresa in zona Cesarini. Succede che a captare per primo certi segnali sia quel Lautaro Martinez che, entrato subito dopo il passivo, coglie nell’aria quell’atmosfera di corrida e in fede al suo soprannome di Toro decide di sfruttare quei pochi minuti per dare l’incornata al torero che sembrava giostrare a proprio piacimento la muleta. Ed arriva lui a prendere quel pallone a ridosso dell’area con una giocata strepitosa, a servire Matias Vecino che per poco non la riprende ancora una volta ma poco importa. Perché quel tiro respinto dalla difesa è guidato da una mano, la mano del destino.
Il destino che ha un corpo, un’anima e un numero: il numero nove. Il numero nove di Mauro Icardi, che hai voglia a stare lì a contare quali palloni in più o in meno abbia toccato durante la partita, quante occasioni è riuscito a creare, quanto abbia appreso nelle lezioni di movimento in area da Luis Suarez. Questi discorsi, queste filippiche, quando si parla del centravanti dell’Inter non contano: se arriva una palla, anche una, che profuma di gol, lui la butta dentro senza pensarci due volte. E così è avvenuto: controllo di palla nello stretto, girata al veleno e ti saluto caro Marc-André ter Stegen. E poi, un gesto che da solo vale tanto: un semplice urlo liberatorio e poi via a recuperare il pallone dentro la porta, perché la partita non è finita e chissà, quei minuti di recupero sin qui sono sempre stati tanto dolci per l’Inter.
Non è successo, questa volta, ma tant’è: alla fine è arrivato un pareggio che, premio eccessivo o meno, vale quanto tutto l’oro di Fort Knox. Certo, è giusto essere più realisti del re ed ammettere che se questo era un esame per capire se l’Inter si potesse ritenere arrivata ad un certo livello, come indicato da Luciano Spalletti nel pre-partita, allora è lecito parlare di un’Inter rimandata al prossimo appello. In questo senso, al di là della consueta dissertazione covercianesca del tecnico di Certaldo, lucide e precise sono state le parole di Samir Handanovic, che ha ammesso senza indugi che questa squadra aveva il dovere di fare qualcosa in più ma anche che gare come queste, contro gente che insegna calcio al mondo, possono solo servire al gruppo per crescere e allora ben vengano.
Non è ancora un’Inter da livello superiore, dunque, ma sta studiando per arrivare entro breve tempo a determinati livelli. C’è però dentro questa Inter un giocatore che si candida per ottenere una promozione diretta al livello più alto, e lo fa a suon di gol: sempre, fortissimamente Mauro Icardi. Lui che era tanto atteso dal primo impatto con la massima manifestazione continentale per tanti anni inseguita invano, lui del quale troppo spesso si è parlato a sproposito e del quale qualcuno è arrivato a presagire un impatto traumatico con la Champions. Se però come biglietto da visita tiri fuori il gol della settimana che lancia l’epica rimonta contro il Tottenham e in ogni partita o quasi metti comunque il tuo timbro, ciò vuol dire solo una cosa: che niente e nessuno riesce a metterti paura. Perché come va va, tu sei lì e quando si sente odore di pallone vincente, arrivi tu e lo azzanni come uno squalo. Mauro si schernisce nel dopo-partita, parla di fortuna, ma Fabio Capello lo riprende spiegando che se succede due, tre, dieci volte, allora non è più fortuna, ma classe. Classe nell’essere sempre lì, pronto al morso.
Mauro Icardi regala all’Inter un punto che, considerate le notizie provenienti da Londra dove il Tottenham è riuscito proprio in ‘zona Inter’ a evitare lo smacco dell’eliminazione quasi aritmetica battendo il Psv Eindhoven (con la complicità di Trent Sainsbury), vale davvero come l’oro. Perché permette di andare a Wembley a fine mese con la consapevolezza di avere dalla propria due risultati pieni su tre, visto che anche il pareggio, in virtù della regola degli scontri diretti, darebbe comunque la certezza ai nerazzurri del passaggio del turno. Una situazione alla quale in pochi, al momento del sorteggio, avrebbero creduto. E che invece è diventata possibile anche perché lì davanti c’è un killer, al quale ora Spalletti chiede di trascinare il gruppo anche nello storico stadio londinese.
Wembley è stato teatro non solo di grandi imprese sportive, ma anche di concerti storici, di pietre miliari nella storia della musica. E chissà se, a fine novembre, l’Inter non possa mettere in scena il suo, di show. Del resto, c’è un gruppo affiatato con un grande frontman. E Wembley, la storia lo insegna, vuole solo grandi melodie.
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Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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