Bella incompiuta, bella che non balla. Poco cinica, poco concreta, poco cattiva sotto porta. Poco fortunata quando servirebbe quel rimpallo, quell’episodio, quel tocco capaci di sbloccare una partita e metterla in discesa o anche solo di cambiarti l’umore e darti quella spinta in più. L’Inter è tante cose ma di certo non ne è una: inferiore alla Juventus. Anche se poi nel calcio vince chi fa gol, ha ragione chi vince e soprattutto passa il turno chi vince e quindi le discussioni stanno a zero.
Dopo tre sfide in poco più di venti giorni restano una gara dominata (quella di campionato), una persa per puro masochismo, che è sempre marchio di fabbrica della casa, e una pareggiata senza che, alla fine, si capisca il perché e per come. Senza, in fin dei conti, una differenza di valore tra le due squadre. Anzi. In finale di Coppa Italia ci va la squadra di Pirlo che ha avuto un solo grande merito: mettersi comoda a scartare i regali offerti dai nerazzurri nella semifinale di andata.
E l’impresa che sarebbe servita a Conte al ritorno non c’è stata perché, di fatto, questa era la situazione ideale per come sta giocando la Juve in questo periodo: una Juve che si compatta in difesa, aspetta l’avversario, ne cerca e ne fiuta l’errore (come si è visto fare ai bianconeri anche nella sfida di campionato vinta con la Roma). La Juve di Pirlo, in sostanza, coincide con la solidità del reparto arretrato e con le giocate di Cristiano Ronaldo (guarda caso autore di una doppietta all’andata e unico pericoloso anche nel ritorno di Torino). Stop. Leggerete cose molto diverse, tipo una squadra ritrovata, ritornata, rigenerata e via dicendo: ma tra le due squadre, una gioca, ha un’identità, un equilibrio, dei limiti e anche delle mancanze; l’altra ha CR7 e a lui si appoggia e a lui deve molto.
L’Inter di Conte è una squadra che all’inizio ha provato a non buttarsi via, ha fatto attenzione a non scoprirsi, a non concedere spazi letali e per questo ha pressato meno furiosamente di quanto ci si potesse aspettare. Ma quando poi ha iniziato a farlo ha costruito anche occasioni e costretto i bianconeri all’errore e all’arretramento. E anche a soffrire.
Ma è un po’ come se contro una difesa con cui sarebbero servite le cannonate, l’Inter avesse continuato a insistere con il fioretto dando la sensazione di essere troppo “leggera”, sempre alla ricerca dei tanti tocchi, dello scambio continuo, della sponda, della finta che però in un qualche modo gli avversari finiscono sempre per leggere al momento dell’ultima e decisiva giocata. Con un Demiral che ha intercettato qualunque cosa passasse dall’area di rigore e un De Ligt in versione bodyguard su Lukaku, gli attaccanti dell’Inter hanno finito per non avere quasi mai l’occasione per calciare in porta ed essere pericolosi.
Eppure le occasioni ci sono state, così come le conclusioni (rimbalzate, deviate, sporcate), i rimpianti e le palle pericolose messe in area ma una cosa la Juve è stata attenta a non concedere: le ripartenze e le transizioni. L’Inter non ha mai avuto la possibilità di correre e distendersi semplicemente perché la Juventus (che aveva preparato la gara proprio così) ha passato la maggior parte dei 90 minuti dietro la linea della palla, in attesa, ad aspettare, a cercare di non sbagliare anche se, alla fine, di imprecisioni e disimpegni sbagliati i bianconeri ne avrebbero pure concessi.
La Juve anzi in certi momenti è stata letteralmente messa alle corde (cosa successa anche all’andata) ma la colpa dell’Inter è che a un certo punto non sapeva proprio come fare per segnare. E nel calcio non è un dettaglio. Come il morale e come la differenza che passa tra una vittoria e una sconfitta che può cambiare e stravolgere giudizi e opinioni. Non volendosi fare ingannare è giusto riconoscere che se fallisci un obiettivo delle colpe le hai e degli errori li hai commessi.
L’Inter ha commesso due follie nella semifinale di andata e nella partita che avrebbe dovuto ribaltare tutto si è ritrovata con gli attaccanti spuntati (e nessuna alternativa) e un Eriksen in serata no, un Barella che ha giocato una gara normale (e meno male verrebbe da pensare altrimenti non sarebbe umano), un Hakimi come unico vero pericolo e soprattutto come l’unico capace e disposto a puntare l’uomo e a inventarsi una superiorità. Nonostante questo la partita l’ha fatta Conte (come doveva essere) ma senza che questo sia bastato. Anzi alla fine si può dire che ha fatto tutto l’Inter: si è eliminata all’andata e non è riuscita a rimediare al ritorno. Senza essere inferiore: ma questo è forse quasi peggio ed è ancora forse più beffardo.
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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