Dicesi possesso "il potere effettivo connesso alla 'disponibilità', ma non necessariamente alla 'proprietà' di un bene". Un significato che può essere trasferito al calcio, nel dibattito tra giochisti e risultatisti, divisi da un unico parametro oggettivo: il dato del possesso palla. La percentuale, che compare appena sotto quello del numero dei tiri in porta nelle schede di riassunto a grandi linee di una partita, è quello che viene preso in maggior considerazione dagli analisti superficiali per raccontare come ha giocato una squadra. Con quelle due cifre, nella logica di chi ha poca voglia di approfondire, si intende racchiudere la sensazione di dominio più o meno marcato che ha lasciato una determinata formazione al di là del punteggio finale. Il tutto per dare un senso matematico a un gusto puramente personale, così da perpetuare la dicotomia tra estetica e praticità nei secoli dei secoli.

Eppure, sarebbe così facile incontrarsi a metà strada, arrivare a un compromesso che riconosca aspetti positivi e negativi di entrambi gli stili. Per fare calcio, su questo devono convenire tutti, serve maneggiare bene l'attrezzo, così come lo chiamano a Coverciano, ma in nessun testo sacro è indicato per quanto nell'arco dei novanta minuti. Posto che il tempo effettivo di gioco è diverso a ogni latitudine, avere la sfera tra i piedi comporta un senso di responsabilità identico a non averla (difendere bene è un'arte come attaccare). La percezione è cambiata quando Pep Guardiola ha sublimato la sua filosofia di futbol fondata sul controllo del tempo e dello spazio attraverso il tiqui taca grazie alla vittoria di 14 trofei nel quadriennio al Barcellona dal 2008 al 2012. Una rivoluzione vincente che ha attecchito ovunque nel mondo, obbligando gli avversari che non si sono voluti adeguare a trovare il sistema per spegnerla. Nel corso degli anni, proprio in risposta a questo incontro irripetibile tra talento e pensiero, si sono sviluppate correnti filosofiche che hanno restaurato vecchie credenze: si pensi al calcio anti-materico applicato da José Mourinho nel famoso Barcellona-Inter 1-0 del 2010, figlio di un 3-1 spaziale maturato all'andata e di un'espulsione ridicola comminata a Thiago Motta al 28'. Una partita manifesto che convinse ancor di più un club glorioso e notoriamente raffinato come il Real Madrid della bontà della scelta di puntare sullo Special One, fresco di Triplete. In quel preciso momento, quella era l'unica opzione, anche se anti-storica, per limitare l'egemonia dell'eterno nemico. Risultato? Tre trofei nazionali in tre stagioni: Coppa del Re, Supercoppa spagnola, ma soprattutto la Liga con il record di 100 punti conquistati (+9 sui catalani) grazie a 121 gol segnati. Un'enormità per un allenatore tacciato di essere catenacciaro solo per aver cercato di studiare delle contromosse atte ad arginare lo strapotere di una delle squadre più forti della storia del Gioco. Ma ai posteri, più che le Coppe messe nell'immensa bacheca dei merengues, rimarrà impressa nella mente soprattutto la manita blaugrana incassata da Mou nel novembre 2010 (tra le peggiori sconfitte della sua carriera) che determinò anche l'atteggiamento troppo prudente nel Clasico di Coppa Campioni, quando relegò in panchina Benzema e Higuain e scelse di mettere Pepe in mezzo al campo. Con l'effetto di inchinarsi di fronte a Lionel Messi, non prima di domandarsi il 'porqué' di certe scelte arbitrali. Il bilancio del portoghese, per molti in deficit, è l'occasione propizia per rimarcare la superiorità non di una squadra sull'altra, ma di un modo di intendere il gioco rispetto a quello opposto. E' successo anche per il cholismo, con la leggendaria Liga vinta dall'Atletico Madrid di Diego Simeone nel 2013-2014, poi 'offuscata' dalle due finali di Champions perse per dettagli contro il Real di Zinedine Zidane, uno a cui è difficile appiccicare addosso delle etichette, se non quella di magnifico gestore di campioni. Il francese, unico nella storia a vincere tre Champions consecutivamente da quando si chiama così, è sempre un passo dietro ai suoi giocatori perché sa che il suo destino è determinato dal loro essere protagonisti. Non è dogmatico e non si vergogna di adattarsi all'avversario, per esempio lasciando palleggiare il Barça battendolo 2-1 col 31% di possesso palla. Ieri ha eliminato il Liverpool di Jurgen Klopp, il massimo esponente del Gegenpressing, tanto da definirlo "migliore di qualsiasi playmaker". Con la pressione si aggredisce una transizione offensiva che, se eseguita bene, vale più di una giocata di un singolo campione. Una rilevazione tattica condivisibile che però rischia di essere troppo assoluta non tenendo conto di un aspetto fondamentale: la tecnica. Sì, perché non va mai dimenticato che un vantaggio su chi difende può essere creato anche dalla creatività di un giocatore. E' il caso di Psg-Bayern, la partita dell'anno che ha saputo intrattenere dal 1' al 90' e oltre. Di una bellezza così abbagliante dal far dimenticare 'costruzioni dal basso', 'possesso palla' e altre sovrastrutture costruite per allontanare lo sguardo degli spettatori dalla meraviglia che suscita il gioco più bello del mondo quando viene praticato da Neymar, Di Maria, Mbappé, Paredes e Sané. Solo giocate paradisiache, inserite in un'organizzazione che richiede un requisito su tutti: la velocità di esecuzione. E' la condizione indispensabile che devono possedere attaccanti, centrocampisti, difensori e portieri. Nessuno escluso.

E chissà cosa avrà pensato Antonio Conte mentre guardava questi fenomeni giocarsela a viso aperto, spinti dal coraggio e da quella sana incoscienza che a lui è costata l'esilio dall'Europa lo scorso dicembre. All'epoca, per la sua Inter, era troppo presto per osare così tanto, ai giocatori mancava la consapevolezza nei propri mezzi che è diventata granitica nella comfort zone del campionato italiano. Quella stessa in cui ha mostrato i suoi muscoli per nove anni la Juventus, prima di fallire puntualmente appena si alzava il livello di difficoltà oltreconfine. Da Conte a Conte, gli ultimi dieci anni parlano dell'inadeguatezza in certi palcoscenici del calcio italiano. Una sensazione di manifesta inferiorità che non può essere ridotta all'unica domanda: 'l'Inter gioca male?'. Quello, semmai, è un interrogativo per nascondere il vero problema che riguarda l'intero movimento, di cui i nerazzurri saranno i portabandiera in Champions a partire dal prossimo settembre. A quel punto, la Beneamata non potrà assumersi le responsabilità di tutti i fallimenti continentali delle nostre rappresentanti negli ultimi due lustri, ma neanche ignorare le eliminazioni nei gironi subite in serie, come fa Conte non appena si fa notare il suo rendimento in Coppa. Il punto è tutto qui: il fatto di 'accontentarsi' di uno scudetto, l'unico trofeo che da troppi anni può puntare a vincere la squadra più forte d'Italia, sta diventando un limite che assomiglia sinistramente a quello che hanno le altre big di qualificarsi alla Champions per il gusto di partecipare alla competizione. E' tutto collegato: non si può chiedere a Conte di giocare come City o Bayern, dal momento che gli basta non prendere gol per vincere contro ogni avversario. E' così da qualche mese, anche se qualcuno lo fa sembrare un decennio, e non è detto che lo status quo durerà oltre questa stagione. Da questo dubbio dipenderà il futuro dell'Inter, ma soprattutto quello del calcio italiano. Che per ora, da Conte in giù, si stropiccia gli occhi seduto sul divano guardando cose dell'altro mondo sullo schermo di un televisore. 

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Sezione: Editoriale / Data: Gio 15 aprile 2021 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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