Forte dei Marmi, estate 1960. Uno sconsolato Angelo Moratti s'interroga su quel che sarà della sua Inter. Il patron della Saras ha fatto diventare il club nerazzurro un bene di famiglia cinque anni prima, prelevando le quote societarie da Carlo Masseroni. I risultati, del resto, non sono arrivati: otto allenatori dal contributo sterile (nessun titolo agguantato), con la continua esigenza di affidare la squadra a stagione in corso all'ex goleador Giuseppe Meazza, il quale - da buon discepolo di Pozzo - ha fatto valere le proprie doti di motivatore e gestore di risorse umane provvedendo a limitare i danni in termini di risultati sportivi.
Moratti rende grazie al due volte Campione del mondo, ma - dal canto suo - vuole vincere lo Scudetto. Forse l'avrebbe già fatto se nel '58 non fosse stato costretto a stracciare il contratto che legava ai meneghini un giovanissimo Pelé, reduce dal Mondiale svedese nel quale aveva istituito la sacralità della maglia numero 10 nel calcio: a Rio de Janeiro il clima era tesissimo e addirittura i tifosi del Santos mandarono a fuoco la sede societaria, cosicché Moratti si fece un buon esame di coscienza e fece restare al Maracanã quello che sarebbe stato poi dichiarato Patrimonio Nazionale del Brasile. È il più grande rimpianto della storia dell'Inter, visto che O Rey aveva già firmato. Ma con i brasiliani, nel 1958, è meglio non scherzare.
Il presidente dei nerazzurri si ritrova, a tal punto, dinnanzi a una scelta: sfumato il miglior giocatore del mondo, non ripagata la fiducia data a molti tecnici, quale altra scelta è necessaria per poter alzare un trofeo? Facile, si direbbe: l'allenatore più quotato d'Europa è un argentino naturalizzato francese, da giocatore ha riscosso risultati modesti ma in panchina è un rivoluzionario. Ha spodestato il Real Madrid dal trono di Spagna (già: "quel" Real Madrid, di Puskas e Di Stefano), allenando un Barcellona fluido nelle ripartenze ed efficace in proiezione offensiva. Trovare l'accordo con lui non è semplice: oltre a un ingente stipendio, vuole anche che gli sia concesso di guidare la Nazionale spagnola fino al Mondiale del '62 (e vincerà qualcosa con l'Inter soltanto dopo aver allenato le Furie Rosse nella kermesse cilena). Non è un personaggio controverso: di più. Ma Angelo Moratti gli consegna le chiavi dell'Inter e lui la fa volare. Anzi, la fa diventare Grande. Per sempre. Quell'uomo si chiamava Helenio Herrera. Lui, forse, di un'effimera presentazione ha bisogno. La sua bacheca, no.
Di anni ne son passati, di mezzo c'è stato un Triplete ma la storia è la stessa: il gruppo Suning entra nel mondo Inter convinto di poter riportare il blasone del club ai fasti di un tempo, dopo un primissimo anno in cui prende le misure con la dimensione societaria si affida a Luciano Spalletti per rivedere le stelle della Champions League e alla fine, quando deve compiere il grande passo per iniziare a diventare "grande", la scelta ricade su Antonio Conte. Re di Londra, eroe bianconero, vice-campione del mondo a Usa '94 con la Nazionale di Sacchi. Uomo del Sud che ha fatto le sue fortune al Nord e che in seguito ha unito Settentrione e Meridione alla guida della sua Italia (che fin troppo bene ha figurato visto il materiale tecnico a disposizione). A Lecce è cresciuto nella via che porta il nome di Giuseppe Parini, anti-sistema al suo tempo. E lui, come gli è stato richiesto, dovrà far vacillare le vecchie impalcature del calcio italiano tentando di farle cadere, in modo da far tornare la facciata del palazzo più bello - quello nerazzurro - a risplendere ed essere ammirata da tutti.
Conte è un maniaco della perfezione, è ossessionato dal risultato: sua figlia, per dovere di cronaca, si chiama Vittoria. Il trionfo: un sogno, ma anche un obiettivo concreto. Per raggiungerlo è necessario lavorare sulle menti dei giocatori. "Prima ti alleno la testa, poi ti alleno le gambe". Questa frase, ad Appiano, si era già sentita. Perché l'importante, nel calcio, è rendere al massimo. "Chi non dà tutto, non dà niente", riferiva il Mago. Conte, senz'altro, è dello stesso avviso. Così come Herrera, il tecnico salentino ha sempre fondato le sue squadre su una difesa solidissima e sul gioco in verticale. Fondamentale è convincere i propri uomini che essi possano andare oltre ogni limite: vincoli e paure, nella sfera di Conte, sono soltanto illusioni. Il 27 maggio 1965, pochi istanti prima della finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica, Herrera ribadì ai suoi che un certo Eusébio da Silva Ferreira (circa 500 reti in carriera) fosse limitato tecnicamente. Bedin scese in campo e, forte di uno stato mentale ideale, gli si attaccò riuscendo a non fargli toccare palla. Un ragionamento non troppo lontano da quello che ha portato nel 2016 Daniele De Rossi a rifilare un tunnel ai danni di Andrés Iniesta nel trionfo azzurro di Saint-Dénis contro la Spagna.
Helenio Herrera ed Antonio Conte: cinquant'anni di distanza, ma filosofie molto simili tra di loro. Menti geniali, spiriti battaglieri, DNA da vincenti. Entrambi fautori di due sistemi discussi, ma terribilmente efficaci. L'uno ha fatto le fortune dell'Inter negli Anni '60 guidando una delle formazioni più poetiche di sempre, l'altro spera adesso - grazie al supporto della società, della squadra e alle sue capacità di gestione - di poter avviare un percorso fondato su un progetto solido e volto alla conquista di nuovi titoli. Per riportare, finalmente, l'Internazionale dove merita.
Autore: Andrea Pontone / Twitter: @_AndreaPontone
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