Alla scoperta di Xherdan Shaqiri, la nuova stella dell’Inter del presente e del futuro. Il Guerin Sportivo di questo mese dedica un ampio servizio alla storia del talento elvetico prelevato dai nerazzurri a gennaio dal Bayern Monaco, ripercorrendone il vissuto calcistico attraverso alcune tappe fondamentali. Lui, nato a Gjilan, in quel Kosovo a maggioranza etnica albanese ma inglobato nella Serbia, con le ben note traversie storiche derivanti, e come tanti fuggito da quella regione con la propria famiglia per trovare un futuro migliore altrove, un destino che lo accomuna ai vari Januzaj, Xhaka, Behrami. La sua famiglia ha scelto la Svizzera, nazione della quale Xherdan difende i colori e che ha contribuito a portare al Mondiale brasiliano anche attraverso due gol segnati proprio all’Albania; giocò anche con gli scarpini raffiguranti i colori delle sue tre nazioni (e ha firmato l’appello alla Fifa per il riconoscimento della Nazionale kosovara), ma ciò non gli bastò per evitare fischi e lanci di oggetti da chi lo considerava un ‘traditore’.
Shaqiri entra nel vivaio del Basilea, ritenuto il migliore della Svizzera per prolificità, a 10 anni e a suon di reti siglate con la maglia dell’Augst, squadra della città di adozione della famiglia. Il primo allenatore a credere davvero in lui e volerlo in prima squadra è Thorsten Fink, che nell’estate 2009 lo vede in ritiro e sentenzia che quel ‘tappetto’ (uno dei tanti soprannomi affibbiati a Shaq) sia il migliore della rosa. Non gli risparmia lavate di capo per gli errori tecnici e ne controlla settimanalmente il peso, ma Shaqiri non si abbatte, annuisce e va avanti. Il 2 gennaio di quell’anno aveva firmato il primo contratto da professionista, dopo una lunghissima trattativa, e il 12 luglio debutta in prima squadra contro il San Gallo. Di quell’estate Georg Heitz, ds del club elvetico, ricorda un aneddoto: “Stavano trasmettendo su uno schermo dello stadio di Basilea le estrazioni del sorteggio di Champions League; Xherdan mi dà un colpetto quando viene sorteggiato lo Zurigo e mi dice: ‘Ecco dove dovremmo giocare’”. Aveva 18 anni, e aveva giocato due minuti nel campionato svizzero.
Col Basilea vince tre campionati consecutivi, debutta in Champions League, diventa un idolo, già nel 2011 sfiora l’Italia ma su tutte arriva il Bayern Monaco che con 11,6 milioni se lo porta a casa, grazie alla promessa di Uli Hoeness di lasciarlo ancora ai rossoblu almeno fino a fine stagione. Primo anno bene, poi arriva Pep Guardiola e iniziano i problemi: l’ex tecnico del Barça non vuole fare a meno di gente come Robben, Ribéry e Gotze, oltre a Thomas Muller. E per lui, nonostante la proverbiale tranquillità e forza mentale, viene a mancare un aspetto fondamentale, quello della fiducia dell’allenatore, sensazione inedita per lui al punto da arrivare a dire: “Avevo perso la gioia”. Gioia che però Shaqiri, uno capace anche di giocare terzino sinistro (da lì riuscì a frenare Seydou Doumbia nella gara che valse al Basilea il titolo 2012), ritroverà col passaggio all’Inter: la presenza di Roberto Mancini e Lukas Podolski sono determinanti per respingere gli assalti di Liverpool, Manchester City e Roma, che già ci provò in estate attraverso lo scambio con Mehdi Benatia, e approdare in nerazzurro.
Shaq nello spogliatoio ha fama di guascone, uno sempre pronto a fare scherzi (al Bayern il suo bersaglio fisso era Mario Mandzukic); è uno con la fissa della sala pesi, che ama vantarsi delle misure dei muscoli delle gambe; ma soprattutto, è giocatore vero, con un grande avvenire davanti. Un accordo fino al 2019 da 2,7 milioni netti e via per una nuova avventura. Quella della possibile consacrazione.
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