Ce n'è anche per l'Inter nella biografia di Zlatan Ibrahimovic. Lo svedese rivela che, dal momento del suo passaggio in nerazzurro, ha notato una cosa che mai gli è andata giù: ovvero, la profonda divisione in tre clan del gruppo, con argentini da un lato, brasiliani da un altro, e il resto in un'altra schiera. "La vera sfida era rompere quei c...o di gruppetti. Li odiai fin dal primo giorno", scrive lo svedese ora al Milan. "Tutte le squadre rendono molto meglio quando fra i giocatori c’è coesione. All’Inter era l’opposto", aggiunge, dimenticando il fatto che con l'Inter riuscì a portare a casa tre titoli nazionali con una squadra di campioni che correva anche per lui. Ibra allora decide di andare a parlare con il presidente Moratti, mostrandogli con una certa decisione le proprie riserve su questa situazione: "Bisogna rompere questi dannati clan. Non possiamo vincere se lo spogliatoio non è unito. E non dipendeva soltanto dal fatto che io venivo da Rosengård, dove ci si mischiava senza problemi: turchi, somali, jugoslavi, arabi. Là in un angolo stavano seduti i brasiliani; gli argentini stavano in un altro e tutti gli altri in un terzo. Era una cazzata. Così considerai come mio primo grande test da leader porre fine a quella situazione. Andavo in giro e dicevo: «Cos’è questa storia? Perché state lì seduti tra di voi come dei bambini?». Quelle barriere invisibili erano troppo nette. L’Inter non vinceva il campionato da secoli. Volevamo andare avanti così? Dovevamo essere dei perdenti solo perché la gente non aveva voglia di parlarsi? «Ovviamente no» disse Moratti. Ma allora bisogna rompere questi dannati clan. Non possiamo vincere se lo spogliatoio non è unito".
A proposito della sua avventura alla Juventus, invece, Ibrahimovic replica alle accuse di favoritismi arbitrali: "Come sempre, quando qualcuno domina, altri vogliono tirarlo nel fango, e non mi stupiva affatto che le accuse venissero fuori quando stavamo per vincere di nuovo il campionato. Stavamo per portare a casa il secondo scudetto consecutivo quando scoppiò lo scandalo, e la situazione era grigia, lo capimmo subito. I media trattavano la faccenda come una guerra mondiale. Ma erano balle, almeno per la gran parte. Arbitri che ci favorivano? Ma andiamo! Avevamo lottato duramente, là in campo. Avevamo rischiato le nostre gambe, e senza avere nessun aiuto dagli arbitri, queste sono cazzate! Io dalla mia parte non li ho avuti proprio mai, detto in tutta franchezza. Sono troppo grosso. Se uno mi viene addosso io rimango fermo, ma se finisco io addosso a qualcuno quello fa un volo di quattro metri. [...] Non sono mai stato amico degli arbitri, nessuno della nostra squadra lo era. No, no, eravamo semplicemente i migliori e ci dovevano affondare, ecco la verità. [...] La Juventus organizzò una riunione di crisi nella nostra saletta fitness, in palestra, e non la dimenticherò mai. Moggi all’apparenza sembrava quello di sempre, ben vestito e forte. Ma era un altro Moggi. Proprio allora era venuto a galla un nuovo scandalo che riguardava suo figlio, una qualche storia di infedeltà coniugale, e lui ne parlò, di come fosse offensivo, ed ero d’accordo: erano faccende personali che non avevano nulla a che fare con il calcio, ma non fu quello a colpirmi di più. Fu il fatto che cominciò a piangere, proprio lì, davanti a tutti noi. Fu come un pugno nello stomaco. Non l’avevo mai visto debole prima. Quell’uomo aveva sempre avuto padronanza di sé, aveva irradiato potere e forza. Adesso all’improvviso, ero io a provare compassione per lui. Il mondo si era rovesciato".
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