È uscita nella giornata di oggi la lunga intervista rilasciata da Nicolò Barella a Matteo Caccia, online su Youtube e di cui trovate la trascrizione qui. Una lunghissima chiacchierata che mette a nudo nella maniera più inedita possibile il centrocampista dell'Inter e che si conclude con il più sincero e fedele dei ritratti del 23 nerazzurro come persona e anche come giocatore. Doverosa la premessa che rende omaggio alla bravura di Caccia nel riuscire a rendere tanto accessibile un mondo fin qui estraneo, quasi occulto, di uno dei giocatori più forti del panorama italiano. In punta di piedi e discretissima curiosità si è riuscito ad aprire un varco nel più 'misterioso' degli uomini di Inzaghi. Una messa a nudo che per essere compresa nella sua assoluta profondità va probabilmente ripercorsa a ritroso. E seppur nella sua semplicità e naturalezza, la trasversalità d'analisi di questa chiacchierata permea nelle più profonde sfumature caratteriali e personali di Nicolò Barella come uomo, spiegandone meglio anche il calciatore. È per ciò che il plauso va fatto ed interessante ne risulta sottolineare qualche tema trattato nell'intervista in questione per l'importanza sociale toccata da alcuni di questi argomenti citati dal giocatore che, proprio per la delicatezza e spontaneità con le quali parla, inusuali anche nel mondo del calcio in generale, vale la pena accentare.
L'intervista si conclude con l'aneddoto legato alla morte del suo più grande idolo, Gigi Riva. Il maestro di carriera e di vita, ripercorso d'altronde dall'intervista stessa partendo dal titolo, che ben si applica anche a quel concetto di amore acquisito che racconta a proposito del legame instaurato e solidificato con l'Inter, che fa del cagliaritano classe '97 un giocatore e un uomo che in campo come nella vita procede per la sua strada, magari sbagliando, ma "Senza vendersi mai". "Ci sono state persone che sono stati meno di lui, la loro immagine è stata regalata a tutti. Lui la sua l'ha sempre tenuta per sé o l'ha data a chi voleva. È riuscito a dire chi era Gigi a chi voleva lui. Per questo è stato amato a Cagliari, era il più sardo dei sardi non essendo sardo" ha detto a proposito di Riva, un'idea che - come poi attesta spiegando le motivazioni che lo hanno portato a non presenziare al suo funerale - tramanda nella sua quotidianità e lo rende anche per questo silenziosamente - non a caso - strettamente legato con un filo diretto al suo 'maestro'. "Ho preferito organizzare una cosa con suo figlio, portando un mazzo di fiori al cimitero. Non volevo essere lì, con gli occhiali da sole, comparire in tv". L'antispettacolarizzazione mediatica da sempre praticata fa di Barella il giocatore più rappresentativo di un antieroismo che nel 2024 fa specie anche e soprattutto alla luce del forte legame che solo tramite la comunicazione calcistica è riuscito ad instaurare con il suo popolo. E che fa ancora sperare in una rivoluzione silenziosa che dovrebbe far rumore e che l'intervista di oggi in qualche modo racconta.
Un dolore privato e lontano dai riflettori come quelli privati di cui non ha parlato nell'intervista in questione, ma che abbiamo conosciuto: vissuti, assimilati, superati. Grazie ai compagni, ma anche da solo (e naturalmente grazie alla famiglia, pilastro fondamentale della sua vita). Un po' come successo nell'elaborazione dei dolori provati e provocati dopo e dalle sconfitte incassate. "So bene cosa vuol dire perdere. Ho perso e dall'altra parte ho anche vinto... ma è più facile spiegare cosa vuol dire vincere, perdere non sai cosa può comportare dopo. Ti porta a dire - ad esempio -: 'giocherò ancora una finale di Champions?' Non mi piace perdere, l'avrei volute vincere tutte le finali che ho giocato, ma è uno stimolo per riprovarci l'anno successivo. Almeno così è per me, ma la testa di molti non funziona così. Io so cosa vuol dire perdere, so cosa può succedere nella testa di un giocatore anche nella vita privata" dice dopo essere stato interpellato sull'aneddoto che l'ha visto protagonista subito dopo il fischio finale del derby scudetto. È in uno di questi passaggi che la chiacchierata mette in luce un altro tema particolarmente delicato e attuale che è quello della salute mentale, della rilevanza dell'attenzione all'aspetto psicologico degli atleti, non sempre scontata in passato, tutt'altro, né tantomeno oggi. La demonizzazione e lo sgretolamento dell'idea di calciatore perfetto, dello status simbol che il CR7 di turno aveva edificato nei decenni precedenti e della felicità assoluta come ovvia conseguenza ad una vita fatta di più agi che disagi. "Ci sono situazioni che non si vedono e che creano disagio" e ci sono altrettante situazioni che non devono vedersi, perché proprio quel filo sottilissimo tra vita pubblica e vita privata mai come oggi - ricorda il centrocampista - è un'arma a doppio taglio che quasi sempre il sardo tende di evitare per indole.
Non cadere al centro delle critiche, anche feroci, però è impossibile, specie per un personaggio tanto esposto come possa esserlo un calciatore dell'Inter e della Nazionale e anche in quel caso, l'arma a doppio taglio dell'esposizione e pressione mediatica o dell'utilizzo dei social possono diventare un problema. Un problema che può e come riflettersi anche sul rendimento professionale: "C'è stato un periodo in cui non rendevo per questioni personali. Era un momento in cui non avevo una grande passione per il calcio, era veramente solo lavoro. Non mi sono sentito solo, ma sentivo di non aiutare abbastanza i miei compagni. Non mi sentivo inutile, ma non stavo dando quello che potevo dare". C'è chi, come nel caso del suddetto atleta, è riuscito anche senza l'aiuto di un professionista esterno, quale possa essere uno psicologo, e chi no. Motivo per il quale pone favorevolmente l'accento sul tema, riconoscendo un percorso in crescendo visto negli anni da parte del settore calcistico che, sappiamo, va ancora profondamente aiutato ed educato.
"Molte cose che prima erano normali diventano pesanti, diventa pesante tutto. E se ti succede a 26 anni è un problema. È molto difficile parlarne. Però succede spesso, a tante persone e a tutti livelli". Quindi in burnout ci vanno pure gli strapagati milionari che fanno 'il lavoro più bello del mondo', o superficialmente definito con tanto di irrispettoso disprezzo 'quelli che corrono dietro a una palla'? Sì, succede anche a loro e il loro burnout non vale meno di altri va ascoltato esattamente alla stessa maniera. Nicolò Barella riesce a farsi ascoltare, ecco perché nella chiacchiera con quel pizzico di sincero imbarazzo in taluni momenti che lascia pian piano il posto ad un'agiatezza tale da lasciare che a prendere il sopravvento sia l'autenticità del Nicolò bambino, figlio, ragazzo, uomo, padre e infine anche calciatore che lo sveste dei panni di quest'ultimo e lo 'abbassa' al semplice livello di 'ragazzo' che parla ai suoi simili è importante quando dice: "Al mio livello, se volessi smettere domani, con tutto il rispetto, potrei anche essere libero di farlo, ma smettere sarebbe stato troppo facile". Passo in cui sprona i suoi 'simili' a non mollare, ricordando senza spocchia a che livelli si può arrivare e legandosi a quel concetto di 'fortuna' nell'accezione più latina del termine di cui con umiltà parla quando si esprime con schietta gratitudine per la vicinanza e presenza al mondo che lo circonda quotidianamente, quindi l'Inter nel suo complesso. Condizione che non capita ai più e al contempo frutto di ciò che si è disposti a costruire e per cui a sacrificarsi.
Dal 'basso' dell'umanizzazione del calciatore perfetto, dalla sbagliata 'distanza' che l'antispettacolarizzazione di cui fautore ha qualche volta fatto credere ci fosse tra lui e il tifoso medio, Nicolò Barella ci dice chi è dal profondo della sua naturalezza imponendosi quasi inconsapevolmente, di sicuro, non volutamente, come antieroe di una narrazione distopica di ciò che la 'usuale quotidianità' ci propina travolgendoci. Rendendoci al contempo un inconsueto fedele disegno di ciò che è dentro ma soprattutto fuori dal campo. Ma spesso, e più probabilmente sempre, è proprio questo fuoricampo (probabilmente fin qui sconosciuto ai più) di Nicolò che fa di lui quel Barella di cui né gli interisti né gli italiani vorrebbero e dovrebbero voler mai fare a meno. E questo ritratto trasversale tra il Barella calciatore e il Nicolò uomo ne parafrasa esemplarmente il perché.
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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