Storie di calcio, di calcio di una volta; storie di trofei dimenticati, che una volta erano importanti ed erano motivo di prestigio per chi li vinceva ed oggi invece sono finiti fagocitati nel calderone dei ricordi e delle foto d’archivio magari ingiallite. Oggi tutto gira intorno alla Champions League, al Mondiale per club, a trofei dai nomi altisonanti e che evocano grandi suggestioni, ma in primo luogo alimentano il motore del business legato al mondo del pallone. Nomi che hanno sostituito le vecchie Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, e che hanno soppiantato il ricordo di manifestazioni come la Coppa Europa, la Mitropa Cup, il torneo Anglo-Italiano che rappresentava un vanto per i club di Serie B. Primi tentativi di mettere a confronto club e scuole dei diversi paesi europei, prima che i format di oggi prendessero il definitivo sopravvento. E tutto nel puro spirito sportivo. Anche se ancor prima che il calcio prendesse la piega odierna, fu dato alla luce un prototipo di calcio-business, un esperimento affascinante e insieme azzardato che alla fine tracciò a suo modo una strada.
Era l’inizio degli anni ’80, l’era in cui l’Italia cominciava a mettersi alle spalle gli anni bui ed inaugurava una nuova pagina, quella del rampantismo, degli yuppies e del nuovo benessere. L’era in cui cominciava ad affacciarsi una figura che a suo modo avrebbe segnato la storia recente nel nostro Paese, quel Silvio Berlusconi che ancora non era arrivato alla presidenza del Milan ma che già si imponeva come apripista della tv commerciale in Italia con la creazione di Canale 5, il cui brand cominciava ad espandersi attraverso l’acquisizione di diritti di grandi serie televisive e di eventi sportivi. Nel 1980, per dire, fece scalpore l’acquisto dei diritti europei della Copa de Oro o Mundialito, una competizione organizzata in Uruguay per celebrare i 50 anni dalla prima edizione della Coppa del Mondo con la presenza delle Nazionali che conquistarono il titolo di Campione del Mondo. Tali diritti furono poi ceduti alla RAI, che si tenne le gare in esclusiva della Nazionale italiana. Ma fu il primo boom per Canale 5, che poteva trasmettere gli altri match in diretta in Lombardia e in differita nel resto d’Italia, grazie ai quali toccò picchi di otto milioni di spettatori.
Alla fine dell’evento, infarcito anche da feroci polemiche, la Fifa pose un veto cinquantennale sulla manifestazione, e allora Berlusconi decise di fare in proprio organizzando con la Fininvest un suo Mundialito, stavolta dedicato ai club con la denominazione ufficiale di Coppa Super Clubs. Si sarebbe svolto ogni due anni in estate, e avrebbero partecipato, invitate, le squadre che annoveravano nella loro bacheca la Coppa Intercontinentale. Se vogliamo, l’archetipo su larga scala di quei tornei e torneini che popolano oggi l’estate pallonara. La prima edizione si svolse nel 1981 a Milano (giocoforza), avevano diritto a partecipare 15 squadre ma presero parte alla competizione solo Inter, Milan, Feyenoord, Santos e Penarol.
La formula adottata fu quella del girone unico all’italiana, con 10 partite in 12 giorni. E ad imporsi fu l’Inter di Eugenio Bersellini, che dominò letteralmente la scena con 3 vittorie e un pareggio. Una bella cavalcata chiusa con la vittoria per 3-1 ai danni del Milan, in un derby che durante la stagione era insolitamente mancato, in quanto i rossoneri avevano appena chiuso la loro prima stagione in Serie B. Bomber della manifestazione fu Alessandro Altobelli, con quattro centri; ma ad impressionare più di tutti, al punto da meritarsi il titolo di miglior giocatore del torneo fu il suo storico compagno di reparto, Evaristo Beccalossi. Protagonista incontrastato del Mundialito al punto che i dirigenti del Santos arrivarono a sbilanciarsi con una dichiarazione clamorosa, sostenendo che lui, il Becca, era uno dei pochi giocatori in grado di poter indossare la maglia numero 10 del Peixe. Più che una maglia, una reliquia, essendo stata quella di Pelé.
Forse una frase esagerata, di certo roboante. E che aiutò ad alimentare tra i tifosi nerazzurri l’aurea quasi di leggenda intorno alla figura di Evaristo Beccalossi, talento naturale e sregolato, genio e anarchia, croce e delizia, e tante altre dicotomie potrebbero essere utilizzate ancora. Giocatore che quando era in vena sapeva fare col pallone cose incredibili, a partire dai dribbling coi quali mandava al manicomio gli avversari. Ma capace di passare dagli elogi alle critiche più spietate nel giro anche di poco tempo. Idolo della folla quanto poco amato da Enzo Bearzot che gli negò il Mondiale di Spagna 1982 nonostante il plebiscito dell’opinione pubblica (una ragazza rimediò anche una sberla dal ct per questo motivo) perché non inquadrabile in uno schema. Dopo quella frase dei dirigenti del Santos, in Sud America pare che qualche club si sia fatto davvero sotto con l’Inter per convincerlo a passare dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, oltre a qualche club europeo. Un italiano fuori dalla Serie A: oggi la normalità, all’epoca invece sarebbe stato visto quasi come un marziano. Francamente sorge la curiosità di capire come uno come il Becca avrebbe potuto giocare in Europa o, meglio ancora, in Brasile: non lo sapremo mai, e per i tifosi nerazzurri, alla fine, è meglio così…
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