Stagione negativa per gli arbitri italiani, certificata anche dall'analisi di Paolo Casarin, un monumento in materia. Ecco le parole dell'ex fischietto alla Gazzetta dello Sport.
Paolo Casarin, dove nasce la crisi della nostra classe arbitrale?
"Certamente non ora. L’errore più grave è stato commesso nel 2010, quando la Can è stata sdoppiata in due gruppi distinti, A e B. Era facile prevedere che alla lunga questa divisione avrebbe “ammazzato” il ricambio generazionale".
Ci spieghi perché.
"Ma è logico. Si è creato un gruppo di eletti che fa una valanga di partite a stagione e un gruppo di meno fortunati, ma magari ugualmente capaci, in cui pochi hanno la possibilità di fare il salto. Le faccio un esempio: da designatore (ruolo ricoperto dal 1990 al 1997, ndr), ogni tanto mandavo Collina a dirigere una partita delicata in B, oppure sceglievo un giovane promettente e gli affidavo una gara complessa in A. Così il ricambio era continuo ed erano tutti stimolati, soprattutto gli esordienti: considerate che l’inizio di una carriera arbitrale deve essere bruciante, ti dà forza, crea un radicamento psicologico. In questo modo sono usciti i Collina, i Braschi, i Messina, i Farina, fino a Rosetti e Rizzoli".
Cosa c’è che non va nel «sistema»?
"L’idea verticistica che in A debbano viaggiare solo gli arbitri “arrivati”. Ma chi lo ha detto che sono anche i migliori?".
Anche la tecnologia li ha disorientati un bel po’. Parliamo di Var?
"Parliamone, anche perché spesso se ne parla a sproposito. Il discorso parte da lontano".
Prego.
"In sintesi: fino al 1990 l’arbitro è stata un’autorità indiscussa, gli interventi erano considerati tutti involontari, i rigori un’eccezione, il fuorigioco sostanzialmente non era controllato. Poi sono arrivate le tv e il pubblico si è reso conto che gli arbitri sbagliavano, e non poco. La tv ha fatto a pezzi la figura dell’autorità al di sopra delle parti. Tutti i nodi sono venuti al pettine nel Mondiale italiano, che per gli arbitri fu una tragedia. Subito dopo ci dicemmo, cambiamo tutto: regole, gioco, arbitraggio. È nel 1990 che si è cominciato a sentire odore di precisione, è da lì che è partito il lungo viaggio verso la Var".
Ma l’ingresso della tecnologia è storia più recente, no?
"Sì, perché prima si è pensato di aiutare i direttori di gara aumentandone il numero sul campo. Tutti esperimenti più o meni fallimentari: dal doppio arbitro agli assistenti di porta, non hanno prodotto nessun risultato. Voi vi ricordate di un addizionale che sia riuscito a convincere il collega di campo? Gli arbitri sono fondamentalmente degli individualisti, il lavoro di squadra non ce l’hanno nel dna. Ecco perché ad un certo punto l’ingresso della tecnologia è diventato ineluttabile. Ci si è posti una domanda molto semplice: come possiamo aiutare l’arbitro a commettere meno errori, o almeno ad evitare quelli più grossolani? Questa è la ratio della Var".
Ma è un collega a suggerire all’arbitro sul campo di correggere la sua valutazione...
"Già, e qui abbiamo uno dei problemi, forse il più grande: se i due arbitri continuano a sentirsi in competizione, non ne usciranno mai. Continueranno ad entrare in rotta di collisione troppe frequentemente. È la verità. Anche per questo sarebbe utile riunire gli arbitri di A e B, bisogna alimentare uno spirito di collaborazione se non vogliamo che l’utilizzo della tecnologia finisca per causare più danni che benefici".
Ritiene che il protocollo Var sia inadeguato?
"Ritengo che fosse un buon punto di partenza, ma a questo punto avremmo già dovuto modificarlo. Con buoni arbitri in campo dovremmo avere pochi interventi tecnologici, e con due arbitri che sanno collaborare quei pochi interventi dovrebbero essere rapidi. E invece...".
E invece sembra tutto così farraginoso. Giocatori, tecnici, tifosi: sono tutti disorientati.
"Li capisco. Prendiamo i falli di mano: prima erano tutti involontari, ora meritano tutti un calcio di rigore? Non è possibile, il calcio è dinamismo, non possiamo pretendere che i giocatori diventino pinguini".
Questa come si risolve?
"Con il confronto. Gli arbitri si mettano sullo stesso piano di allenatori e calciatori. Sono tre parti imperfette di un insieme. Facciamoli dialogare, ognuno scambi la propria specializzazione con quella dell’altro, solo così la conoscenza diventerà totale. Possibile che si decida come valutare un fallo di mano senza consultare i calciatori? L’arbitro deve lavorare, non comandare".
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Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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