Giacinto Facchetti capitano azzurro prende la coppa dell’Europeo - chiamata Henri Delaunay in onore del dirigente Uefa creatore della competizione - scende tra la folla che invade il prato dell’Olimpico di Roma e la solleva. Il suo sorriso, il suo successivo gesto di tenerezza nel tenere in braccio il trofeo come fosse un figlio, immortala un momento che al calcio italiano manca sempre più. Per chi non è più tra noi – interisti e non - da quasi sei anni e per quello che rappresenta l’immagine da 44 anni, perchè nella bacheca tricolore quella coppa - da allora - non è più entrata. Scatta domani la 14° edizione della rassegna continentale per nazioni in Polonia e Ucraina, con la Spagna campione in carica, senza convocati interisti… E’ una sera tiepida, la sera di lunedì 10 giugno 1968, quando l’Italia diventa Campione d’Europa. Alle spalle degli azzurri la doppia, infinita, incredibile, sfida contro la Jugoslavia che due giorni prima aveva inchiodato con sagacia tattica la nostra nazionale sul pari - 1-1 reti di Dzajic e Domenghini - nonostante i supplementari. Non esiste la regola dei calci di rigore e - solo per l’ultimo atto - si rende necessaria la ripetizione. Una finale bis che l’Italia di Valcareggi fa sua attaccando fin dai primi minuti.
“…Al 12’ l’Italia passa in vantaggio. Dopo una rimessa laterale Domenghini a trequarti di campo scambia con un compagno, poi allunga e alza per Riva; l’ala sinistra scatta, la difesa è ferma, forse pensa a un fuorigioco, e Riva può infilare Pantelic rasoterra alla sua sinistra: 1-0”. L’Italia agisce in contropiede e gli scambia palla a terra tra De Sisti – Mazzola – Domenghini – Riva fanno male. “…al 31’ il secondo gol degli azzurri. Dopo un tiro slavo parato, contropiede velocissimo. La manovra si conclude con uno scambio De Sisti – Anastasi: questi in posizione centrale, poco dentro l’area, controlla, infine spara un tiro perfetto. Pantelic viene fatto secco alla sua destra, a fil di palo”.
La Gazzetta del giorno dopo titolerà: “Italia al vertice, un titolo anche per noi.
Vittoria agli azzurri dopo trenta anni di delusioni. 2-0 e grande calcio”.
L’Inter, la grande Inter di Herrera, aveva finito il suo lungo periodo di dominio italiano, europeo, mondiale, nella primavera dell’anno precedente. In meno di due settimane, tra il 25 maggio e il 7 giugno 1967, tutto svaniva: la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni contro il Celtic, l’incredibile ko di Mantova con lo scudetto regalato – papera di Sarti e polemiche per l’arbitro cambiato poco prima della gara – alla nemica Juventus e l’eliminazione nella semifinale di Coppa Italia col Padova. Eppure la spina dorsale di quella Italia era ancora nerazzurra, simbolo di calciatori e uomini unici che non mollavano mai e che raccoglievano ancora consensi unanimi. Burgnich (il giocatore risponde alla fiducia del tecnico); Guarneri (concentrazione e coordinazione perfette); Facchetti (in splendida forma, ha espresso interamente le sue grandi possibilità, dando anche spettacolo); Mazzola (è stato formidabile, tanto in fase di impostazione, quanto di interdizione: un autentico campione); Domenghini (si sapeva stanco per le ultime tre partite ma ha dato un contributo prezioso).
Con loro doveva esserci anche Armando Picchi regista della Grande Inter, passato nel ‘67 al Varese come giocatore/allenatore. Disputa le partite di qualificazione ma durante Bulgaria – Italia del 6 aprile si rompe il bacino. Sarà, tristemente, la sua ultima partita in maglia azzurra. Al trionfo di Roma si arriva attraverso un percorso difficile e l’aiuto della dea bendata. L’Italia si qualifica come prima in un girone composto da Romania, Svizzera e Cipro; elimina la tosta Bulgaria nei quarti di finale (sconfitta 3-2 a Sofia; rimonta 2-0 davanti a 89.000 spettatori a Napoli) e in semifinale incrocia i tacchetti con l’Urss. Il 5 giugno, sempre nel capoluogo campano sotto una leggera pioggia, l’Italia, praticamente in dieci per 115’ minuti per uno stiramento che limita Rivera, non va oltre lo 0-0. Domenghini prende un palo ma Zoff ha molto lavoro da sbrigare sugli attacchi sovietici. Pareggio giusto e il regolamento prevede il sorteggio per stabilire chi va in finale. Dirà l’arbitro tedesco Kurt Tschenscher: “Non avrei voluto che la risoluzione venisse dal capriccio della fortuna. Ma non c’era altro modo”.
Le squadre rientrano negli spogliatoi, il pubblico in silenzio attende il verdetto. Alla presenza del delegato Uefa signor Puiol e dei presidenti delle federazioni calcistiche italiana e sovietica, i capitani Facchetti e Sherternev entrano nello stanzino del direttore di gara. A loro è mostrata una moneta d’argento da dieci franchi coniata nel 1906, scelta fra tre monete, una spagnola, una francese e una americana. Ricorderà Facchetti: “L’arbitro ci invita a fare una scelta. Io dico subito “figura” indicando la testa della moneta, ovviamente Sherternev è obbligato a indicare il rovescio. Tschenscher lancia in aria la moneta che cade, rimbalza sul pavimento e, da non crederci, si fissa quasi dritta in una fessura di una piastrella sotto una panca. Si ripete il lancio. Questa volta cade di piatto e vedo subito la testa. L’arbitro dice “Italy”, non trattengo un urlo e faccio un salto. Esco nel corridoio e vado verso i nostri spogliatoi con il braccio alzato; dalla mia faccia i miei compagni hanno già capito, usciamo tutti in campo a salutare i tifosi che preparano dei falò sugli spalti per festeggiare”. Titolerà la Gazzetta: “La moneta è con noi! Al sorteggio cancellata la sfortuna (e gli errori)”.
Commenterà Burgnich: “Quando sono terminati in parità i tempi supplementari ho subito pensato che il sorteggio ci avrebbe premiato. Tutti erano nervosi e preoccupati mentre aspettavamo l’esito. Io no. Il nostro capitano era Facchetti!”
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