Il 27 luglio di esattamente quindici anni fa era una domenica, torrida e carica d'attesa. A San Siro, in coda alla festosa presentazione della compagine meneghina sulle sempre esaltanti note di Luciano Ligabue, era in programma un'amichevole tra Inter e Manchester United: in un indescrivibile calderone di emozioni, cinquantamila cuori nerazzurri si erano dati appuntamento al "Meazza" nel bel mezzo di una bollente estate di sogni e favole, ansia ed entusiasmo, incredulità e scatenate invidie esterne. Milioni di altri sostenitori del Biscione avevano invece deciso di rinunciare a una vacanziera serata all'aria aperta per restare avidamente incollati davanti alla tv e godersi in pieno ogni attimo di quell'evento epocale, reso tale dal fatto che nella formazione milanese andava a debuttare il calciatore indiscutibilmente più forte in circolazione: Luis Nazario de Lima, in arte Ronaldo, attaccante brasiliano nato il 22 settembre 1976 a Bento Ribeiro (quartiere povero dell'infinita Rio de Janeiro) da tempo titolare inamovibile della Nazionale verdeoro, un metro e settantanove centimetri d'altezza per settantacinque chilogrammi di peso, 52 miliardi di lire pagati dal generoso e lungimirante presidente Massimo Moratti - che aveva cominciato a corteggiare il pelato campionissimo già dodici mesi prima - per strapparlo dopo un'estenuante maratona legale dalle ben poco arrendevoli mani del Barcellona, club nel quale Ronie si era definitivamente appropriato dell'azzeccatissimo soprannome "Fenomeno" grazie ad una stagione strabiliante condita da quarantasette reti in cinquantuno gare ufficiali e dalla vittoria in pompa magna della Coppa delle Coppe, della Coppa del Re e della Supercoppa di Spagna.
Gli aficionados nerazzurri, in quello snervante luglio di continui annunci e smentite che passava lento tra un'attenta lettura dei quotidiani sportivi ed un occhio costante alle molteplici trasmissioni a tema, di lui sapevano dunque praticamente tutto: l'unica cosa che forse ancora non sapevano era quanto, nel giro di alcune settimane, il gioco del centravanti carioca dai dentoni sorridenti li avrebbe fatti perdutamente innamorare. Di lì a breve nel petto dei tifosi - in modo evidente nelle case, sulle Smemoranda e nei guardaroba dei più giovani - sarebbe detonata una ronaldomania irrefrenabile e contagiosissima, l'Inter avrebbe di colpo ripreso lo scettro di squadra maggiormente popolare del pianeta, la caratteristica esultanza a braccia larghe e indici puntati si sarebbe presto propagata persino sull'ultimo, polveroso campo parrocchiale del globo. Sprint folgorante, dribbling mozzafiato, cambio di passo in grado d'incenerire ciascun avversario, due fantasiosi piedi di zucchero capaci di pezzi di gran classe anche a velocità supersonica e, dote principale, un fiuto del gol innato: trentaquattro realizzazioni in quarantasette presenze alla sua prima stagione con la casacca numero dieci sponsorizzata Pirelli, con la quale il bomber sudamericano conquistò immediatamente una coppa Uefa e sfiorò di un soffio lo scudetto, ancora oggi giustamente celebrato come quello conseguito nella maniera smaccatamente più scandalosa che l'ultracentenaria storia del calcio italiano ricordi. Un tricolore fasullo tipo il provocatorio "trenta sul campo" recentemente ostentato proprio dalla Juventus della pluricondannata ditta Moggi&Giraudo vincitrice del campionato 1997/'98, il cui pubblico (lo stesso dei ripetuti e disgustosi insulti alla memoria di Giacinto Facchetti o al "negro italiano" Mario Balotelli) in quegli anni si sarebbe tra l'altro distinto per uno dei più infimi striscioni mai apparsi in uno stadio dello Stivale: il 16 aprile 2000, ossia appena quattro giorni in seguito al secondo gravissimo infortunio consecutivo occorso al tendine rotuleo del ginocchio destro di Ronaldo, nel settore di San Siro destinato ai supporter bianconeri sbucò infatti l'abominevole scritta "Ronaldo salta con noi: le tue lacrime, la nostra gioia".
Un terribile incidente distante solo cinque mesi dal precedente che, non ancora ventiquattrenne, pareva aver irrimediabilmente messo fine alla carriera del rapidissimo asso verdeoro: il capitolo purtroppo maggiormente drammatico e preponderante del lustro nerazzurro di Ronie, costretto ad assentarsi quasi completamente per tre delle ultime quattro stagioni nelle quali, per colpa pure di vari guai fisici non strettamente riconducibili al tendine rotuleo, l'attaccante di Bento Ribeiro disputò la miseria di cinquantadue match riuscendo comunque a marcare venticinque reti. Anni di frustrazioni ed insuccessi per il popolo interista, ininterrottamente però compatto al fianco del proprio Fenomeno nella speranza di rivedere presto l'immenso giocatore ammirato all'esordio in Serie A, finalmente libero dalla morsa di una cinica malasorte accanitasi in una primaverile notte romana di coppa Italia dove l'articolazione inferiore di Ronaldo, ed il cuore dei suoi tifosi, aveva gelidamente fatto crack appena sette minuti dopo il rientro in campo dalla prima, pesante operazione al ginocchio subita. Periodo amaro in cui i passionali fan della Beneamata non smisero un attimo di far sentire affettuoso appoggio al loro calamitante idolo brasiliano, così come l'intera società (in particolar modo il presidente Moratti, che sin dal principio lo aveva costantemente coccolato alla stregua di un figlio adottivo) in grado di seguirne cure, recupero e stato d'animo con atteggiamento premurosamente scrupoloso e senza peraltro fargli ritardare di un giorno il faraonico stipendio mensile. Normale perciò il feroce sentimento di delusione, rabbia e sconcerto che tutti provarono quando apparve chiaro che la straordinaria punta carioca, ritornata a calcare con una certa continuità il rettangolo verde solamente da una manciata di partite, avesse ineluttabilmente deciso di farsi cedere al Real Madrid: l'organo cardiaco dei sostenitori del Biscione fece quindi nuovamente crack - e, stavolta, in maniera definitiva - alcune settimane dopo la conclusione del Mondiale 2002 vinto dal Brasile per merito di un superlativo Ronie, capocannoniere e indiscusso protagonista della manifestazione nippo-coreana che gli consegnò l'unica Coppa del Mondo delle tre disputate, trofeo sfuggitogli nella finalissima 1998 davanti alla Francia padrona di casa esclusivamente a causa del tuttora misterioso malore che lo colse in ritiro a poche ore dalla sfida con la compagine transalpina. Una scioccante circostanza, la gara contro Zidane e compagni giocata da uno smarrito Ronaldo in versione fantasma di sé stesso, che avrebbe eternamente tracciato una sottile linea di confine tra l'atleta spumeggiante ed imprendibile degli inizi e quello, pur sempre bravissimo, meno effervescente e più muscolarmente massiccio del prosieguo.
Un Ronaldo che, molto probabilmente, ha rappresentato il miglior straniero della saga interista, nonché il più forte calciatore affacciatosi sulla scena intercontinentale del ventennio a cavallo tra i due secoli, capace, tra i diversi riconoscimenti personali accumulati, di conquistare il prestigioso Pallone d'Oro in due occasioni (1997 e 2002) malgrado fosse stato messo fuoricombattimento dagli infortuni per una sostanziosa parte di carriera: un predestinato, un giocatore grandissimo ma altrettanto un uomo moralmente piccolo. Uomo per il quale valori tipo gratitudine e rispetto hanno visto non contare pressoché nulla, desolatamente sacrificati sull'altare del freddo e bieco opportunismo. Un romanzo d'amore scintillantemente sbocciato in un'afosa domenica di luglio di quindici anni fa (sebbene il primo abboccamento tra il Fenomeno e la Beneamata risalisse addirittura all'autunno 1993, quando il club allora appartenente a Ernesto Pellegrini riuscì a strappare al Cruzeiro un'opzione poi mai esercitata) e ufficialmente terminato il 31 agosto 2002 nel peggiore dei modi: l'incontrastato re nerazzurro obbligato a dileguarsi a tarda sera da un'uscita secondaria come un malvivente, additato ad immemore traditore dalla furente folla che lo stava vedendo allontanarsi da Milano, città in cui sarebbe ritornato nel gennaio 2007 - seppur al crepuscolo del cammino agonistico ed imbolsito da un evidente sovrappeso figlio anche della cronica allergia di Ronie verso il lavoro atletico - per vestire di scappata la meno nobile ma servilmente ben più decantata maglia del Milan. L'ultimo, profondo, squarciante graffio su una storia d'amore che non era certo stata una delle tante.
Pierluigi Avanzi
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