Milano, periferia ovest. In un imprecisato anno a cavallo tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, tra automobili parcheggiate copiosamente e regolari occhiatacce della portinaia, ragazzini giocano a pallone su un marciapiede prospiciente a uno dei molti condomini color crema di connotazione perlopiù proletaria che, a partire dai favolosi e redditizi anni Sessanta, avevano cominciato ad ospitare una cifra sempre maggiore di immigrati provenienti dalle più e meno distanti zone d’Italia, famiglie all’inseguimento di un ipotetico benessere economico da raggiungersi solo al prezzo di tanto, ammirevole, faticoso, dignitosissimo, esemplare e laborioso sacrificio. Uno di questi entusiasti ragazzini, intento a colpire con forza un Super Tele esageratamente gonfio, sfodera con orgoglio una maglia nerazzurra sponsorizzata “Misura”: la maglia del F.C. Internazionale, per tutti l’Inter, la squadra che in quella disinvolta e briosa epoca “da bere” – priva di vacui ed appariscenti social network, attraverso i quali parecchia gente è oggi presuntuosamente convinta di poter equiparare la propria parola al Vangelo, e piena di rapporti personali splendidamente autentici – assieme al Milan del trio olandese Rijkaard-Van Basten-Gullit faceva del capoluogo lombardo l’incontrastata città regina del calcio italiano, un calcio italiano decisamente romantico alle prese con sfide epiche contornate da stadi colmi e, forse mai come in tale periodo, traboccante di fuoriclasse, profondamente competitivo ed al top mondiale. Una metropoli che al tempo, oltre ad osservare da lontano eventi enormi tipo la sospirata riunificazione della Germania o la feroce repressione cinese contro la protesta degli studenti di Piazza Tien An Men, si divideva scudetti e coppe europee con Napoli e Sampdoria e, tra una sorsata di Sprint a colazione e una puntata di Super Vicky prima di cena, nell’animo di qualunque bambino all’epoca vi crescesse non poteva far sbocciare una naturale passione per lo sport più celebre all’ombra del Duomo e di conseguenza per una delle due sue formazioni cittadine, fosse essa la Beneamata che portava sul cuore lo strepitoso scudetto-record conquistato nella stagione 1988/’89 oppure la rivale rossonera della doppietta in coppa Campioni 1989-1990 ispirata dalla fortunata e provvidenziale nebbia di Belgrado.
Da una parte la mai retrocessa Inter dai tredici tricolori messi in bacheca (undici quelli inanellati dai dirimpettai, finiti in Serie B per ben due volte a inizio anni Ottanta), dall’altra il Milan con nel palmares quattro coppe Campioni (in opposizione alle allora due del Biscione). Il proficuo football spoglio di fronzoli del decoratissimo e tatticamente sagace mister Giovanni Trapattoni di fronte all’utopia rivoluzionaria e alla ricerca senza posa del fuorigioco del trainer milanista Arrigo Sacchi. I nerazzurri Lothar Matthaeus, Andreas Brehme e Jurgen Klinsmann, triade tedesca iridata a Italia ’90, a far da contraltare al terzetto orange del Diavolo vincitore dell’Europeo 1988. La sopracitata casacca del ragazzino in questione, però, non recava sulle spalle né il numero dieci del fenomenale centrocampista d’assalto e Pallone d’Oro 1990 Matthaeus, né il numero tre del portentoso terzino sinistro Andreas Brehme, né il numero nove dell’acrobatico centravanti Klinsmann: su quella gracile schiena faceva infatti capolino un “undici” fatto di elastiche fettucce bianche cucite a mano, il numero del capocannoniere della massima Serie 1988/’89, alla ragguardevole quota di ventidue reti, Aldo Serena. In attesa della disfida meneghina prevista fra pochi giorni, che in campionato vedrà magicamente contrapposti per la centottantaquattresima occasione l’universo intellettualmente Baùscia contro quello popolarmente Casciavìt, l’uomo che meglio conosce spirito e sensazioni suscitate dal vocabolo derby, non fosse altro per averlo disputato, sia a Milano che a Torino, con le divise di tutte le compagini coinvolte.
Tanto solido come atleta quanto inquieto nella carriera, Serena per la fazione Baùscia rimarrà in eterno il cecchino dalle lunghe leve che, sul perfetto spartito dal sapor di 3-5-2 tratteggiato dal Trap, nella stagione scudettata visse indiscutibilmente la migliore delle sue sette in nerazzurro – vorticosamente spese, tra un prestito e l’altro, fra il tramonto degli anni Settanta e l’alba dei Novanta – anche perché “l’unica dove potei giocare nella posizione a me più congeniale, ossia quella di attaccante centrale affiancato da una seconda punta di movimento”. Il longilineo e di gran fisico Aldo sostenuto dal piccolo e agile argentino Ramon Diaz, una delle coppie offensive meglio assortite e redditizie della storia interista, fruttò un totale di ben trentaquattro segnature in due, decisive per la vittoria del titolo e probabilmente, essendo Diaz un calciatore acquistato solo in prestito che al termine di tale meravigliosa annata fu rimpiazzato da un Klinsmann troppo simile ad “Aldone” per stazza e caratteristiche tattiche, pure per il mancato successo nei due a lungo battagliati tornei seguenti, conclusi rispettivamente al terzo ed al secondo posto in classifica: tornei che per Serena furono gli ultimi disputati con il Biscione prima di chiudere il sipario agonistico con un paio di comparsate ancora in maglia rossonera, con la quale in precedenza era stato protagonista nella cadetteria 1982/’83. Trevigiano di Montebelluna – paese fulcro, guarda caso, del distretto industriale della calzatura sportiva – classe 1960, caparbio centravanti dalla mole snella e slanciata, piedi non raffinatissimi ma tosto guerriero dell’area di rigore e micidiale nel colpo di testa, somma incarnazione della “Working on a dream” cantata dall’idolo Bruce Springsteen, subito dopo il cui concerto milanese del 21 giugno 1985 passò da casa Pellegrini per firmare nottetempo il rovente contratto che quell’estate lo avrebbe trasferito dal Torino alla Juventus, e tangibile protagonista di una granitica compagine nerazzurra finita sugli almanacchi per la vorace “fame”, il piglio grintoso e l’indole d’acciaio. Peculiarità che andavano sapientemente ad unirsi alle pregevoli qualità tecnico-atletiche di parecchi singoli presenti in una rosa che, con ben otto uomini compreso Serena, avrebbe fatto dell’Inter la società nostrana maggiormente rappresentata al Mondiale 1990: il tutto sublimato dalla pragmatica saggezza di un perfezionista assoluto della panchina come l’intelligente, esperto, lungimirante ed incline al dialogo mister Trapattoni, il cui anticipato addio alla Beneamata rispetto agli accordi, avvenuto nel maggio 1991 dopo cinque campionati quasi sempre di vertice, non per nulla coincise con l’epilogo di un ciclo vincente che si sarebbe potuto e dovuto protrarre per almeno dodici mesi ancora. Allo scudetto vinto alla straordinaria e tuttora imbattuta quota (per i tornei a diciotto squadre assegnanti due punti a vittoria) di 58 punti, infatti, andranno ad aggiungersi la Supercoppa italiana 1989 e, a ventisei anni dall’ultimo successo del Biscione in Europa, la coppa Uefa 1991, trofeo che all’epoca godeva di notevolissimo credito poiché, a differenza di oggi, per arrivare a conquistarlo si doveva passare attraverso un arduo cammino cui prendevano parte le migliori formazioni del Continente classificatesi dal secondo gradino in giù nei rispettivi campionati di appartenenza.
Tre trionfi ai quali Serena, gitano del gol portato giovanissimo in nerazzurro nel 1978 dai dilettanti del Montebelluna, nella stagione 1981/’82 sotto la guida dell’allenatore Eugenio Bersellini, con cui non ebbe tuttavia un rapporto granché positivo, sommò anche una coppa Italia: allori che impreziosirono una carriera interista portata sempre avanti da Aldo con audacia e personalità – le stesse che adesso paiono irrimediabilmente mancare a diversi dei lautamente pagati calciatori agli ordini di Roberto Mancini, incapaci di sopportare le pressioni e le pretese trasmesse dalla storicamente “pesante” maglia della Beneamata – e chiusa totalizzando duecentoventiquattro presenze con un bottino di settantanove centri (cinque invece le marcature, in ventiquattro partite, siglate con la Nazionale), di cui quattro segnati al Diavolo e tutti procuranti vittorie per la compagine nerazzurra. Leggendarie reti rimaste nella memoria dei tifosi e del derby della Madonnina, da decenni ormai la stracittadina più prestigiosa d’Europa in quanto l’unica del Vecchio Continente che pone a confronto squadre entrambe vincitrici della coppa Campioni: pur se nell’imminenza di un match che si annuncia in tono decisamente minore rispetto al glorioso passato, Inter-Milan resta una cosa seria. Che ti prende lo stomaco, la gola e l’anima. Altare o polvere, gioia o lacrime, bagliore oppure oscurità. “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”, diceva Pascal. E’ il derby di Milano, bellezza.
Pierluigi Avanzi
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