Per ironizzare sulla ‘fase due’ lanciata qualche giorno fa dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in tanti hanno detto che è stata una ‘fase uno-bis’: poche variazioni effettive, con un ventaglio di opzioni per il cittadino che si è allargato più di termini che hanno dato vita a veri e propri arzigogoli linguistici prima ancora che giuridici, qualche tenaglia ancora ben stretta che però si vorrebbe allargare già nei prossimi giorni, seppur con degli accorgimenti dettati dalle ben note norme sanitarie che portano molti dei diretti interessati a guardare all’orizzonte scatenarsi la bufera. Senza perdersi troppo in sottigliezze, anche questa fase due del calcio non sembra discostarsi molto dal passato: manca di fatto solo la partita, il fatto compiuto sul campo, ma per il resto non sembra volerne sapere di placarsi la baraonda di liti, sfuriate, discussioni velenose, stracci che volano per qualsiasi argomento.
Non è ancora dato sapere quale sarà la decisione in merito al destino dei campionati professionistici, ma nonostante ciò si continua a battibeccare sopra ogni tema: si litiga tra blocchi di squadre per la questione dei diritti televisivi perché si deve trattare anzi no, bisogna adire le vie legali, si minaccia una pioggia di ricorsi qualora il campionato venisse bloccato, ci si guarda torvi fino anche alla Serie C perché l’Assemblea ha deliberato che la quarta promozione in Serie B deve essere decisa tramite il sistema della media punti ma apriti cielo perché si devono fare i play-off e comunque a decidere deve essere la Figc che però in questo momento, forse, ha altre priorità. E in tutto questo marasma, si finisce addirittura a litigare con se stessi e le proprie convinzioni: prova ne sia la clamorosa retromarcia compiuta da Massimo Cellino, presidente del Brescia, fino all’altro ieri arcigno sostenitore del fronte del ‘no’ alla ripresa dei campionati e che lunedì, a sorpresa, ha candidamente cambiato sponda riconoscendo il rischio del fallimento dell’intero sistema calcio in caso di stop definitivo.
Ultimo fronte aperto, e purtroppo abbastanza rovente, è quello delle ultime ore relativo al fatidico protocollo stilato dalla Figc per la ripresa del lavoro delle squadre. Protocollo del quale si continua a discutere ormai da giorni e che continua a far discutere senza che all’orizzonte ci sia uno straccio di convergenza. Il Comitato tecnico-scientifico ha obiettato sul documento federale chiedendo l’introduzione di nuovi punti che non sembrano piacere proprio a nessuno: non fa piacere ai club il fatto che il riscontro di un nuovo positivo nella propria squadra dovrebbe costringere l’intero gruppo all’isolamento, con conseguente stop alle sedute di gruppo e, cosa ancora più importante, alle partite. Non piace ai giocatori stessi il fatto di dover ricominciare ad allenarsi insieme al prezzo di 15 giorni di isolamento, una difficoltà ulteriore nella preparazione dopo oltre due mesi in cui le loro abitudini lavorative si sono ritrovate stravolte senza che loro abbiano potuto farci qualcosa. E ai medici sportivi va decisamente di traverso l’eventualità che una nuova positività al Covid-19, un fatto, purtroppo, impossibile da scongiurare ancora per diverso tempo, tra giocatori e staff, possa essere foriera per loro di conseguenze penali, come ha evidenziato l’ex responsabile medico della Figc Enrico Castellacci. Nel frattempo, è già pronta da essere esaminata dagli esperti del Cts la versione 2.0 del documento: con quali conseguenze dialettiche, lo vedremo certamente in poco tempo.
Troppe incertezze, troppi punti controversi ruotano intorno a questa tematica diventata ormai scivolosissima. E le parti in causa ergono già come modello interplanetario di efficienza nella gestione della situazione quanto fatto in Germania: non è un caso, infatti, che mentre qui in Italia ancora si litiga e non si sa ancora per quanto tempo si sentiranno ancora le grida, sabato il pallone tornerà a rotolare sui campi della Bundesliga, con in calendario una sfida di quelle calde tra Schalke 04 e Borussia Dortmund, che però giocoforza andrà in scena senza pubblico. Tutti a chiedersi perché in Italia non venga applicato un modello simile, dimentichi forse del fatto che la decisione di riprendere il campionato in Germania è stata frutto in primo luogo di una catena di comando ben chiara, politica prima ancora che sportiva, dove Christian Seifert, ad della Dfl, si è espresso dopo il via libera della cancelliera Angela Merkel. Pochi e semplici passaggi, che permettono anche di gestire senza patemi il primo, immediato caso di stop per nuove positività, relativo alla seconda divisione. mentre qui tante sono le voci e soprattutto tanti sono i passaggi di questa patata bollente che scotta da settimane nelle mani dei diretti interessati senza che nessuno, forse per quieto vivere forse per effettiva poca buona volontà, o magari per non doversi poi corazzare di fronte all’eventuale e forse inevitabile tornado di ricorsi, prenda di petto la situazione e si assuma una volta per tutte la responsabilità di dire: “Si gioca” o “Non si gioca”. Un’indecisione che pare far storcere il naso anche alla stessa Uefa, pronta, secondo gli ultimi spifferi, a fare a meno delle squadre italiane per il riavvio delle competizioni europee e a creare una sorta di isolamento forzoso per il pallone nostrano.
Al di fuori di tutto questo inarrestabile vocio, ormai, resta ben poco: restano soprattutto le prime immagini dei giocatori che finalmente, dopo improvvisate sedute tra casa e… garage, tornano a calcare i terreni di gioco per iniziare a riprendere confidenza con quello che è il loro ‘posto di lavoro’, vale a dire il campo. Lo ha fatto anche l’Inter, che venerdì scorso, con qualche ora di ritardo rispetto a quando ci si aspettasse, è tornata ad aprire ai propri giocatori i cancelli della Pinetina. Con modalità ovviamente particolari, dettate, si sa, dalle disposizioni sanitarie: solo allenamenti individuali a piccoli gruppi, giocatori che entrano mentre altri escono, tutti in campo con la cura di rimanere ben distanziati, corse e qualche tocco al pallone qui e là. Insomma, scene insolite, volendo anche un po’ malinconiche. Ma soprattutto, resta lui: resta Antonio Conte, il tecnico nerazzurro. Conte che non ce l’ha fatta ad aspettare il 18 maggio e, nonostante non fosse chiamato a farlo, si è presentato per assistere, seppur a distanza, al lavoro dei suoi uomini. Quel lavoro che non è il suo, in una postazione che non può essere la sua.
Già qualche settimana fa avevamo lanciato su questi schermi un appello al ritorno alla vita consueta per Conte: quella del lavoro intenso come piace a lui, e come lui stesso ha sottolineato anche nella recente intervista a Sky Sports dove è tornato sulla sua esperienza in Premier League, quella Premier League che presumibilmente ripartirà dopo il 1° giugno come indicato dal Governo britannico, mentre qui in Italia rimane ancora tutto in alto mare. Conte ancora costretto a vivere come un leone in gabbia, che non potrà nemmeno godersi per un po’ di tempo l’affetto dei tifosi coi quali condividere la felicità per una vittoria, e che intanto comincia a rimanere invischiato nei rumors di mercato che montano già l’onda e che però, presumibilmente, non lo appassionano più di tanto.
Lui sicuramente attende con impazienza una decisione, sia quella di tornare subito a giocare oppure di prepararsi già con la mente alla prossima stagione; ma è un’attesa che sicuramente non è piacere per il tecnico salentino, parafrasando l’aforisma del filosofo e poeta tedesco Gotthold Ephraim Lessing reso celeberrimo da un fortunato stop pubblicitario. Perché Conte ha voglia di tornare a respirare clima di calcio vero, di campo vissuto, e questa atmosfera ancora rarefatta, facile dirlo, gli causa fatica anche solo nel mandare giù un semplice aperitivo…
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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