E beh, insomma; siamo caduti, ma caduti caduti, e ci siamo fatti del gran male. Oltre ogni previsione possibile ed immaginabile. Ma c’era un allenatore del passato, un grandissimo, che soleva dire: meglio perdere una partita cinque a zero che cinque partite uno a zero. E quanto mi trova d’accordo l’affermazione. E quanto mi manca il personaggio in questione.
Siamo caduti, ma caduti caduti. E tutti erano lì, pronti coi loro fucili già spianati a massacrarci con elucubrazioni mentali fantasmagoriche, ragionamenti arzigogolati, certezze da dare in pasto all’opinione pubblica. Invece no. Invece tutto il caos mediatico per il patatrac nerazzurro è durato un giorno, uno e mezzo massimo.
Troppo orrenda l’Inter di domenica scorsa per poterla giudicare in maniera congrua, troppo strana la partita per poter essere analizzata senza tenere conto di episodi tanto casuali quanto fortunati che hanno caratterizzato la prima mezz’ora non giocata da tutta la truppa interista. Sia chiaro, ci sono stati colpevoli maggiori e minori. Perché la favola che si perde e si vince in undici è bella, bellissima; la migliore da raccontare all’asilo o alle scuole elementari, quando devi formare il carattere di un bambino. E spesso anche noi adulti ce la cantiamo e ce la suoniamo, a volte con ragione. La certezza assoluta è che quando uno di quelli che dovrebbe garantirti solo certezze e zero dubbi combina una serie di disastri tipo Apocalisse viene complicato pensare che si perde in undici. Perché nemmeno io nelle mie peggiori performances ho raggiunto le alte vette del mio omologo. Cose che capitano comunque, soprattutto quando si ricopre un ruolo dove l’errore viene sottolineato sempre con una rete avversaria e non può passare sotto silenzio o essere liquidato come l’errore dell’attaccante che sbaglia da zero metri ma lui era lì. Sarà pure stato lì, ma sempre da zero metri non l’ha messa. I soliti due pesi e due misure.
Siccome però il nostro eroe, oltre ad averci salvato praticamente contro i cuginetti ha le spalle grosse, forse pure grossissime, dubito che riuscirà ad emulare errori ed orrori passati. Anzi, proprio da lui mi aspetto una prestazione da numero uno, in tutti i sensi. E, nonostante il tifo nerazzurro sia abbondantemente diviso tra chi pensa che stiamo parlando di uno bravo e chi è certo che si stia discutendo di uno non all’altezza, io mi schiero apertamente con i primi. Repetita iuvant: ci sta di sbagliare, inutile crocefiggere il ragazzo in questione. Fischiarlo e deriderlo non lo aiuta, così come in passato non ha aiutato un discreto numero di buoni calciatori, forse non dei fenomeni ma buoni si, arrivati a vestire i colori del cielo e della notte con presentazioni magari un pelo troppo enfatiche ma letteralmente distrutti dal Meazza. Che è il più cattivo tra i giudici. Altro che X Factor et similia. Quella è acqua fresca al confronto.
Sì, insomma, forse perché la caduta è stata di quelle pazzesche, strane, di quelle che non sai bene se ridere o piangere tipo il tizio che entra deciso senza accorgersi che davanti a se ha una porta a vetri e sbatte violentemente la faccia rimbalzando all’indietro e cadendo di schiena tra lo stupore generale degli astanti: i quali, forse mossi da pietà umana, non sanno se scoppiare a ridere in faccia al poveretto o preoccuparsi delle reali condizioni di salute della vittima. Che di solito si rialza baldanzoso mostrando al mondo intero che no, va tutto benissimo. Ora, resta da capire noi chi siamo. Cioè, siamo quelli che cascano, si rialzano sorridenti e ripartono come se nulla fosse accaduto oppure cadiamo, ci rialziamo tranquillamente e ricadiamo di botto, come un sacco vuoto?
Genova questo ci deve dire; potrebbe sembrare la trasferta complicata o la partita difficile. Ma, per me, è il primo vero esame nerazzurro dell’anno. E sottolineo vero. Marassi ci racconterà quale Inter ci aspetta per il prosieguo del campionato; non lo dico partendo dal risultato finale, attenzione, ma dalla prestazione che i ragazzi faranno sul terreno di gioco. Ovvio che i tre punti sarebbero più che graditi, non sono tafazziano per natura e non mi martello gli zebedei per il gusto di farlo. Però credo che mai come stavolta, negli ultimi anni, si debba attendere una risposta. Senza nicchiare. Mi spiego; magari vinciamo uno a zero su autorete e Samir para tutto il parabile. Ok, arriviamo a diciotto punti. In attesa del bel gioco; anzi, più che del bel gioco del gioco punto e basta. Ma senza convincere. Ecco, io dalla riviera vorrei tanto tornare con qualche certezza in più, con qualche convinzione, con una seppur lieve consapevolezza che al di là della giocata del singolo, al di là della corsa frenetica di Felipe Melo, al di là di tutto, ho, anzi abbiamo, una squadra.
Me lo aspetto. Lo voglio, vorrei non basta più. Questa formazione, anche se necessita di un paio di campioni per poter essere competitiva ad altissimi livelli, è comunque formata da gente che deve avere fame. A cominciare dal suo allenatore, da Roberto Mancini. Che ha vinto, è vero, ed ha pure vinto tanto in carriera. Ma che, conoscendolo un minimo, pagherebbe di tasca propria non so quanto pur di portare a termine con successo l’ennesima scommessa. Gli altri, i calciatori, fatta qualche rara eccezione presentano un palmarès vuoto, fatto di tante belle parole e speranze ma, come diceva il Vate di Setubal, zeru tituli. Perché questa è la realtà, che piaccia o meno. Ed io esigo che chi non ha vinto nulla in carriera scenda in campo con la voglia di mordere l’erba, il terreno, perfino le panchine fosse possibile. Non eravamo degli alieni prima di domenica scorsa, non siamo degli incapaci oggi.
Ma è davvero arrivato il momento di tirare fuori gli attributi. Siamo dei comuni mortali, è vero, ma chiunque scenda in campo con i nostri colori non può e non deve mai dimenticarsi un concetto fondamentale, da che nel 1908 è nata questa Società: siamo l’Inter, il resto del mondo può stare pure alla finestra.
Siamo unici ed assoluti.
Quindi rialzarsi in fretta, senza piangere. E dimostrarlo.
Amatela, sempre!
E buona domenica a Voi.
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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