Sedici per cento. Dei 203 giocatori transitati nella cantera interista dall'anno post-Triplete a oggi, solo in 33 sono riusciti a mettere piede almeno una volta in campo con la prima squadra. Chi per qualche cammeo utile solo ad aggiornare il grande libro delle statistiche del gioco, altri per partite intere ma superflue per il club dal punto di vista dei risultati sportivi; tutti comunque senza lasciare una traccia significativa dopo il loro passaggio. Un dato che fa riflettere, certamente non sorprendente per i tanti che a occhio, senza bisogno del calcolo puramente matematico, da qualche tempo a questa parte si sono accorti che il laboratorio di talenti della Primavera nerazzurra ha smesso di colpo di produrre giocatori degni del nome della Beneamata.
Un tema che ritorna centrale a pochi giorni dallo storico back-to-back scudetto realizzato dalla squadra di Stefano Vecchi, con ogni probabilità la più rosa più completa dell'arco temporale considerato, che ha riempito con l'ennesimo trofeo la già lucente bacheca del Settore Giovanile. L'ennesima riprova, quasi paradossale, che i risultati eccellenti a livello di campo nel campionato di categoria non corrispondono praticamente mai alla missione dell'Under 19: formare calciatori pronti per il grande salto. Il gap sul significato di Settore giovanile di successo è tutto in questo equivoco storico, lo strumento tagliente che i critici e i tifosi mai contenti utilizzano per sminuire il lavoro egregio portato a termine da Roberto Samaden in questi anni. 'Perché l'Inter non valorizza i giovani?', l'appunto spesso mosso alla società tutta, includendo anche gli alti dirigenti che devono fare di necessità virtù anche quando sono chiamati a decidere le sorti di un giocatore non professionista.
A ben pensarci, gira tutto attorno a questa domanda che contiene al suo interno un'ambiguità marcata: sì, perché se è vero che nella rosa a disposizione di Luciano Spalletti ci sono solo tre giocatori che hanno fatto la trafila nelle giovanili nerazzurre (Santon, Pinamonti e Berni), è altrettanto pacifico che con le cessioni del vivaio dal 2006 a oggi la società di Corso Vittorio Emanuele II ha incassato una cifra che si aggira attorno ai 175 milioni di euro (dati Corriere dello Sport e transfermarkt.it). La valorizzazione è un concetto relativo, insomma, se si mettono in controluce i due dati sopracitati: posto che i soldi sono soldi, ovviamente il potere d'acquisto e di cessione è cambiato nel corso degli anni (Balotelli al City 29,5 milioni magari oggi suonerebbe come una svendita), dal punto di vista del tasso tecnico dalle parti di Appiano Gentile non si registrano rimpianti per i giocatori svezzati e poi abbandonati per le strade del mercato. (Imprevedibile la parabola di Bonucci, l'unico davvero titolare in una grande). Quindi non devono creare scandalo le dichiarazioni rilasciate a caldo da Stefano Vecchi dopo il sesto titolo vinto in quattro anni: "Facciamo comodo alla società perché con l'aiuto delle plusvalenze si costruisce una squadra più forte per l'anno prossimo che possa far stare tranquillo Spalletti". La parolina 'plusvalenze', che da molti viene letta superficialmente come scorciatoia temporale per ottemperare agli obblighi Uefa in materia di Fair Play Finanziario, non è altro che la più classica mossa che fa il paio con la vecchia formula del 'ragazzo mandato a farsi le ossa' altrove per poi riaverlo a disposizione migliorato qualche stagione dopo. Per come è concepito il sistema calcio italiano attualmente, nonostante la creazione del primo campionato Primavera 1 della storia e il progetto in nuce della squadre B, è sempre più raro vedere un giovane approdare in maniera naturale, senza giri lunghi lontani dalla casa madre, dalla Primavera in prima squadra. Magari l'Inter deve migliorare statisticamente su questa nota dolente, ma basterebbe anche un talento valido che sfondi nel calcio che conta per cambiare le prospettive. Poteva diventarlo Andrea Pinamonti, che dopo aver bruciato le tappe giocando sempre sotto età contro avversari e compagni più grandi, quest'anno ha letteralmente cestinato un anno scaldando le panchine di tutti gli stadi del belpaese. Quello dell'arciere di Cles è il caso paradigmatico che spiega quanto sia inutile stringere tra le mani la propria pepita più preziosa se è impossibile metterla in mostra nel momento più opportuno. (La sfortuna ha voluto che Andrea giocasse contro il Pordenone, esattemente nei 45 minuti peggiori della stagione di un'Inter più che rimaneggiata).
Quindi ben venga il diritto di recompra che mette d'accordo tutte le anime della società, da quelle che devono tenere d'occhio il bilanci, alle altre che valutano il merito sul campo: entro il 30 giugno, come successo la scorsa estate, i tifosi assisteranno alla cessione dei giovani più promettenti del vivaio, addii che non contribuiranno ad addolcire la posizione di Nyon (rispettato l’obbligo di breakeven, l'Inter rimarrà comunque sotto settlement agreement anche nel 2018-2019) ma che potrebbero risultare investimenti fruttuosi tra qualche tempo.
E allora, ispirandoci liberamente alla serie tv brasiliana '3%', solo a posteriori capiremo chi è davvero meritevole di abitare nell'offshore interista, non solo per una toccata e fuga come successo alle ultime covate. Per tutti i ventenni che non riusciranno a superare il 'processo', la vita sportiva continuerà nell'Inland del calcio professionistico.
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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